Fonte Areaonline.ch che ringraziamo
Esteri

Il movimento sindacale si mobilita per bloccare le forniture energetiche e militari a Israele: «Non vogliamo essere complici»

La classe operaia si attiva contro il genocidio nella Striscia di Gaza, attraverso il boicottaggio delle catene d’approvvigionamento energetiche e militari. In Colombia e in Sudafrica i movimenti sindacali sono in prima linea per chiedere il blocco delle esportazioni di carbone verso Israele, dove il combustibile fossile è utilizzato per alimentare l’apparato militare.  A Marsiglia, Genova e in altre città portuali, gli operai sono invece mobilitati per impedire il transito o il carico di navi con del materiale bellico destinato allo Stato ebraico.

Il ruolo di Glencore

Zugo, 28 maggio 2025. Tre uomini in abito elegante, occhiali da sole e camicia insanguinata danzano su una mappa della Palestina cosparsa di carbone. Al loro fianco attiviste svizzere e militanti sindacali venuti da varie parti del mondo, dalla Colombia al Sudafrica, dal Canada al Perù. Sono loro a guidare l’azione di protesta fuori dal casinò-teatro dove si è tenuta l’assemblea annuale degli azionisti di Glencore.

La multinazionale svizzera è da anni nell’occhio del ciclone per vicende di corruzione e per il mancato rispetto dei diritti umani e delle norme ambientali nei suoi impianti e nelle sue miniere sparse nei quattro angoli del pianeta. L’assemblea è un’occasione importante per i movimenti sindacali e per le organizzazioni della società civile per fare sentire la propria voce e rivolgersi direttamente ai dirigenti e al consiglio di amministrazione dell’azienda.

Quest’anno, gli attivisti giunti a Zugo hanno accusato Glencore anche di complicità in genocidio. Il motivo: le forniture di carbone a Israele. Questa materia prima, altamente inquinante, viene utilizzata per alimentare l’apparato militare responsabile del genocidio in corso nella Striscia di Gaza oppure per produrre elettricità destinata alle colonie illegali in Cisgiordania.

 

Il no di Gustavo Petro

Fino al 2023, il più grande fornitore di carbone allo Stato ebraico era la Colombia. Il
paese latino-americano garantiva oltre il 50% delle forniture, gran parte delle quali garantita da due multinazionali: l’americana Drummond (che ha un’antenna commerciale in Ticino) e la svizzera Glencore. Nell’agosto 2024, però, il presidente Gustavo Petro ha firmato un decreto per vietare l’esportazione di carbone verso Israele: «Con il carbone colombiano fabbricano bombe per uccidere i bambini in Palestina», aveva scritto il capo di Stato sul social network X.

Il divieto è stato chiesto ed è sostenuto dal movimento sindacale, come ci ha spiegato Juan Carlos Solano, segretario del sindacato colombiano Sintracarbon, che area aveva incontrato a margine dell’assemblea di Glencore a Zugo: «Abbiamo sostenuto questa scelta del Governo nazionale perché non siamo d’accordo che il nostro lavoro sia utilizzato per vendere materie prime ad uno Stato implicato in un genocidio». L’attivista ha voluto lanciare un appello al movimento sindacale internazionale per chiedere di seguire l’esempio della Colombia e fermare così le esportazioni di minerali e metalli verso i teatri bellici: «Il pianeta è sull’orlo di una nuova guerra mondiale e sono i lavoratori che possono e hanno l’obbligo di fermare questa minaccia contro l’esistenza della razza umana».

Manifestazioni in Sudafrica

A seguito del blocco della Colombia, il fabbisogno di carbone di Israele è stato garantito da altri paesi. Tra questi vi è soprattutto il Sudafrica, Paese che già a fine 2023 ha accusato lo Stato ebraico di genocidio davanti alla Corte Internazionale di Giustizia. Una contraddizione che è stata sollevata dai movimenti sindacali sudafricani, che da tempo chiedono il blocco delle esportazioni di fonti energetiche verso Tel Aviv. Tra i principali produttori di carbone sudafricano vi è Glencore. La multinazionale elvetica ha dei legami molto stretti con il paese dell’Africa australe, di cui sono originari l’attuale e il precedente CEO del gruppo.

La National Union of Mineworkers (NUM), uno dei principali sindacati sudafricani, ha invitato tutte le compagnie minerarie del paese a considerare le implicazioni della loro continua attività con Israele: «Abbiamo chiesto a Glencore e a tutte le imprese di riflettere sulle implicazioni del proseguimento delle loro attività commerciali con Israele, alla luce delle uccisioni di massa e delle vittime civili, perlopiù donne e bambini, causate dalle operazioni dell’esercito israeliano a Gaza» ci aveva spiegato, sempre fuori dal teatro di Zugo, Donald Makofane, segretario del NUM. Le proteste sindacali in Sudafrica, iniziate lo scorso mese di agosto, sono continuate nelle scorse settimane, con l’appoggio della società civile e di una parte della comunità ebraica. «La chiamata del movimento sindacale per fermare le esportazioni di carbone in Israele rispecchia un sentimento crescente e sempre più esplicito all’interno del Sudafrica» ci diceva Donald Makofane, secondo cui «questo sentimento sostiene un allineamento più coerente tra le pratiche commerciali della nazione e la sua forte condanna pubblica delle azioni di Israele sulla scena globale».

 

I portuali non sono complici

Negli ultimi mesi le proteste contro le forniture a Israele si sono spostate soprattutto nei porti. A inizio giugno, i portuali di Fos-sur-Mer, vicino a Marsiglia, si sono rifiutati di caricare pezzi di mitragliatrici su una nave in partenza per Haifa. In precedenza gli stessi portuali avevano bloccato il carico di altri due container sulla stessa nave: «Il porto di Fos non deve essere utilizzato per spedire munizioni o armi per nessuna guerra. I lavoratori del porto non vogliono essere complici di massacri e perdite di vite umane» ha scritto in un comunicato la Confédération Générale du Travail (CGT). Secondo il sindacato, nei container bloccati vi erano dei piccoli pezzi metallici che consentono ai fucili mitragliatori di sparare a raffica. L’esportazione di questi prodotti era stata menzionata già nel marzo 2024 dal sito Disclose, secondo cui le forniture francesi sarebbero “suscettibili di essere utilizzate contro i civili nella Striscia di Gaza”.

L’azione dei portuali marsigliesi ha ricevuto l’appoggio dei colleghi di Genova, dove la nave in questione avrebbe potuto attraccare. «Riaffermiamo con forza il nostro rifiuto di qualsiasi complicità nel genocidio a Gaza e la nostra ferma opposizione a qualsiasi guerra» ha dichiarato José Nivoi, referente Mare e Porti del sindacato Unione sindacale di base (USB) e portavoce del CALP, il Collettivo autonomo lavoratori portuali che da anni si batte contro il transito di armamenti dallo scalo ligure. José Nivoi lo abbiamo conosciuto qualche anno fa quando siamo stati in Liguria proprio per scrivere un articolo sui camalli che lottano contro il transito in porto delle armi.

«Abbiamo raccolto un testimone che non era mai stato perduto, quello lasciato dai portuali genovesi che bloccavano le armi americane dirette in Vietnam» ci aveva raccontato il sindacalista, accompagnandoci nel porto.  Già allora i portuali liguri avevano condotto un’azione contro l’invio di armi in Israele. Era il 2001, quando un portuale scoprì che dei missili erano stati caricati su una nave della ZIM, grande compagnia marittima israeliana, in un momento in cui era in corso un’offensiva su Gaza. La nave riuscì a salpare, ma i portuali genovesi riuscirono ad allertare i colleghi di Livorno e Napoli che boicottarono l’imbarcazione.

Proprio le navi della ZIM furono nel mirino di altre azioni di protesta nell’autunno del 2023, dopo l’inizio dell’ultima guerra a Gaza. In questi ultimi due anni, le proteste dei portuali marsigliesi e genovesi non sono stati dei casi isolati. Sin dall’autunno del 2023, in varie parti del mondo, i lavoratori dei porti si sono mobilitati per contrastare il commercio della guerra. Dagli Stati Uniti all’Europa, dall’Australia al Marocco, al Cile i movimenti sindacali sono in prima linea per bloccare le forniture allo Stato ebraico. Dalle miniere ai porti, la classe operaia vuole dare il proprio contributo contro la logistica della guerra. Rompendo gli anelli di questa catena che alimenta i conflitti, forse non si riuscirà a fermare il massacro, ma almeno gli operai potranno dire, chiaro e forte, di non voler fare parte di questo ingranaggio mortale e di non essere stati complici di un genocidio.

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