I costi della “non sicurezza” di Maurizio Mazzetti

Riprendiamo ancora dalla rubrica “Il lavoro deve essere sicuro” de Ilmanifestoinrete l’articolo di Maurizio Mazzetti che ringraziamo per la chiarezza e la precisione.

Fonte Ilmanifestoinrete

Anche se ogni infortunio o malattia professionale, tanto più se gravi, possono essere considerati moralmente inaccettabili, il loro verificarsi va valutato anche sotto il profilo dei relativi costi, individuali, aziendali e sociali. Vediamoli un po’.

Ormai da qualche anno sono disponibili elaborazioni e studi sui costi economici e sociali degli infortuni; minor attenzione è posta a quelli delle malattie professionali, per quanto le situazioni siano sostanzialmente sovrapponibili. Purtroppo, questi studi, che concludono univocamente per costi molti alti (ma sui numeri torneremo alla fine dell’articolo), non sembrano avere effetti concreti sulle politiche per la prevenzione e la sicurezza sul lavoro, almeno in Italia: gli interventi normativi continuano ad essere effettuati episodicamente, magari sull’onda di qualche evento di particolare risonanza presso l’opinione pubblica, e limitata magari alla mera gestione, di solito indennitaria, delle conseguenze. Per esempio, ci sono voluti quattro casi mortali di studenti impegnati nell’alternanza scuola lavoro, oggi PCTO – percorsi competenze trasversali e orientamento – per stabilire una tutela indennitaria a studenti e famiglie; ma ben poco, chiacchiere, o piuttosto grida manzoniane a parte, si è fatto in termine di formazione alla sicurezza (l’Accordo Stato regioni in materia è scaduto da anni e, a quanto pare, non verrà rinnovato neppure entro quest’anno), e prevenzione. E ciò dimostra, una volta di più, del fatto che manca, a livello di sistema paese, una strategia; e che anche che la stessa conoscenza dei fenomeni, checché se ne dica quando nei convegni si parla del SINP – Sistema Informativo Nazionale Prevenzione – è quantomeno carente.

Tornando ai costi degli infortuni, è ormai consolidata una loro tripartizione in tre tipi:

  1. Costi diretti
  2. Costi indiretti
  3. Costi “intangibili

Detti costi ricadono poi, in misura diversa, su chi lavora, sull’azienda e sulla società (vedremo poi qualche elaborazione/stima sulle percentuali di ripartizione)

Utilizzerò per la loro illustrazione alcune tabelle, reperibili in rete, dello Studio Scanavino e Partners di Torino; i costi che elencano sono i medesimi di quelli contenuti in altre pubblicazioni sull’argomento (dai documenti dell’Agenzia Europea per la Sicurezza e Salute sul Lavoro, al Rapporto della Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia di inizio 2023, o delle altre fonti citate nell’ultima parte di questo articolo), anche se in altri studi la collocazione della singola voce di costo è magari diversa, ma queste tabelle hanno il pregio di una miglior leggibilità, pur nella loro sinteticità.

Costi diretti: Sono quelli più facilmente quantificabili in termini monetari, in quanto sono direttamente connessi all’oggetto del costo considerato.

Potremmo aggiungere ad essi anche quelli per l’intervento del Servizio di Prevenzione e Protezione (analisi degli eventi, aggiornamento delle procedure e del DVR) nonché quelli legati ad eventuali scioperi di protesta o altre forme di agitazione, che ricadono su lavoratori e azienda, nonché sull’intera società se indetti per solidarietà per eventi particolarmente gravi (la cronaca ce ne dà numerosi esempi anche recenti). Infortuni e malattie professionali comportano tendenzialmente un aumento del premio assicurativo, e nel caso di sanzioni irrogate dagli organi di vigilanza impediscono per quell’anno di usufruire degli sconti di premio INAIL per prevenzione.

Costi indiretti: non possono essere definiti e soprattutto quantificati esattamente (se non talvolta a livello di singola azienda), e si deve ricorrere a stime, con elevata variabilità.  Annoveriamo tra questi la riduzione della produttività della forza lavoro dovuta all’infortunio, i costi di sostituzione/formazione/addestramento per l’assenza del lavoratore infortunato, eventuali straordinari necessari a recuperare il tempo perduto, anche per eventuali sospensioni dell’attività per le indagini e magari sequestri di macchinari e luoghi, costo delle attività di indagine, compresi compilazione di verbali e rapporti con le autorità di controllo, costi di riqualificazione/riaddestramento nel caso in cui al lavoratore infortunato venga adibito ad altre mansioni.

Osserviamo come il danno di immagine in realtà è molto più teorico che pratico almeno nei suoi effetti economici, almeno in Italia, in quanto il tessuto produttivo è costituito in larghissima maggioranza di aziende medie, piccole e piccolissime, per lo più fornitori e subfornitori: di solito non sono quindi i consumatori/utenti finali che possono vedere scemare  o interrompersi la  propria “fedeltà” (loyalty, come definita da Hirschman nel suo Lealtà, defezione, protesta –  Loyalty, exit, voice -), mentre  è tutto da dimostrare che l’immagine costituisca un elemento di scelta di chi affida fornitura e/o subfornitura.

Quanto all’adibizione ad altre mansioni, ricordiamo che dall’infortunio o malattia professionale può derivare una ridotta capacità lavorativa, con eventuali divieti di certe mansioni o prescrizioni/limitazioni (avviene con maggior frequenza nelle malattie professionali). Non sempre l’azienda è in grado di provvedere, specie se di piccole dimensioni, con conseguenti licenziamenti (e corresponsione dei trattamenti di fine rapporto), contenziosi medico legali sull’idoneità, ma anche perdita di professionalità, in particolare di quelle che si acquisiscono unicamente attraverso il fare. In realtà produttive di maggiori dimensioni, un elevato numero di lavoratrici/lavoratori con prescrizioni e limitazioni comporta rilevanti problemi di adeguamento della complessiva organizzazione del lavoro, a meno di non procedere a drastiche chiamiamole epurazioni, con moltiplicazione dei costi rispetto a quelli che deve affrontare una realtà più piccola, e ben maggior danno d’immagine.

Costi Intangibili: non rientrano nella contabilità aziendali e sono difficili sia da individuare sia da stimare (per esempio il danno reputazionale, per quanto non disgiunto totalmente da quello di immagine, è largamente dipendente dalla collocazione dell’azienda entro la filiera produttiva) e spesso richiedono la quantificazione economica di un impatto eminentemente sociale. Ad esempio, dolore e sofferenza morale e psicologica di chi ha subito l’infortunio o contratto la malattia professionale, sono quantificabili solo se si arrivare ad un giudizio, con la magistratura  che stabilisca l’entità del danno morale, da perdita di opportunità e via enumerando, anche per i familiari; con una molteplicità e variabilità delle valutazioni difficilmente riconducibili a sistema.

Lo studio citato riconosce che “Chiaramente il costo maggiormente rilevante per i lavoratori riguarda la perdita della qualità della vita o la morte prematura risultante dagli infortuni o dalle malattie”. Non si può però condividere l’assunto che non esistano costi sociali intangibili, per quanto di problematica quantificazione: tutti i costi (danni) subiti dal lavoratore hanno effetti sociali, sulla famiglia in primo luogo, poi sui colleghi di lavoro, poi sulla società nel suo complesso (assistenza psicologica e sostegno al rientro nel mercato del lavoro, se effettuati da agenzie pubbliche, come almeno parzialmente avviene in Italia).

Individuati, sia pure con approssimazione e per difetto, i tipi di costi, si tratta di quantificarli, in totale, in media, e nella loro ripartizione sia come tipologia, sia rispetto su chi li sopporta (anche se, anticipo, i costi sociali in realtà sono pagati da lavoratori ed aziende, perché finanziati attraverso l’imposizione fiscale). È evidente che una simile operazione si basa largamente su stime e con ampi margini di errore, ma quantomeno fornisce un ordine di grandezza.

Lo studio più approfondito, condotto dall’Agenzia Europea per la Sicurezza e Salute sul Lavoro su un gruppo di paesi europei, tra cui l’Italia (The value of occupational safety and health and the societal costs of work-related injuries and diseases), stimava per il nostro paese un costo medio per singolo infortunio di circa 55.000 euro, ed un costo totale di quasi 105 miliardi di euro all’anno (6% del PIL); le percentuali di costi diretti, indiretti ed intangibili erano stimate, nell’ordine, dell’8%, 56% e 36%. Lo studio è però già datato, in quanto uscito nel 2015 e quantificante un numero di casi, per l’Italia, poco sotto i due milioni, numero però largamente inferiore (quasi doppio) di quelli attuali per infortuni e malattie professionali; sono inoltre intervenuti mutamenti normativi e nel sistema assicurativo (sia dal alto dei costi aziendali, sia circa gli indennizzi), cui va aggiunta l’inflazione, non trascurabile specie in questi ultimi due anni anche se di impatto reale tutto da verificare. Non solo i costi, dunque, sono mutati (e non verso il basso …) ma verosimilmente anche la loro ripartizione percentuale tra le diverse tipologie; qualche stima più recente dà un costo totale per singolo evento elevato a 64.000 euro.

Che siano 55.000 o più verosimilmente 64.000, si tratta di cifre sorprendenti; e basterebbero ad indicare come ogni sforzo per ridurre numero e gravità di infortuni e malattie professionali comporta un beneficio per l’intera collettività ben superiore al costo sostenuto; ma di questo si fa parola nei convegni, di solito, e la cosa finisce lì. Ma anche attenendosi ad una accezione più ristretta di costo, cioè quella più facilmente traducibile in grandezze monetarie, accezione fondamentale per le aziende, qualche studio calcolò che dei 55.000 euro di costi medi di un evento sull’azienda ne gravavano 23.000, secondo altri 26.000 (42% o 47%); se prendiamo per buono il costo di 64.000 euro, significa che l’azienda “paga” rispettivamente 26.764 oppure 30.255 euro; e si tratta comunque di oneri sempre evitabili, perché sempre evitabili sono infortuni e malattie professionali. Obietterà però qualcuno, e con qualche ragione, che per fare prevenzione comunque l’azienda deve spendere, sostenere cioè dei costi, anche se più correttamente si dovrebbe parlare di investimenti; e se la prevenzione è stata inefficace, nel senso che infortuni e malattie professionali si sono comunque verificati, l’investimento ha avuto un ritorno addirittura negativo, mentre se è stata efficace (nessun evento), il ritorno è solo ipotetico …. Ma questo vale, ad esempio, per ogni forma di assicurazione, o se vogliamo di investimento quando la sua resa dipende da variabili esterne al controllo dell’investitore. Ora, la questione è complessa e con ipotesi di soluzione non univoche anche a livello di singoli eventi, figuriamoci perciò a livello globale. A braccio, ogni addetto ai lavori dirà comunque che la prevenzione conviene anche dal punto di vista economico; ma se proprio vogliamo delle cifre, l’ILO – International Labour Organization – e l’ISSA – International Social Security Association calcolano che per 1 euro investito in prevenzione il ritorno dell’investimento (per tecnici ed anglofili tasso ROP = Return On Prevention, in realtà parte del ROI = Return on Investment, quello che considera il tasso di rendimento di tutti gli investimenti di un’impresa) è pari a 2,2 euro, cioè il 220% ….

In un prossimo articolo si cercherà di analizzare perché, se queste sono le variabili economiche in gioco, e nonostante un poderoso apparato di norme giuridiche e tecniche, in Italia i risultati, circa frequenza e gravità degli infortuni, continuano a non essere soddisfacenti. E per chi volesse approfondire, e magari perdersi nel mare magnum delle statistiche (ma guardare oltre i confini nazionali è sempre utile): QUI, nonché QUI