Riprendiamo da Dinamopress la seconda parte di questo importante articolo di Luca Negrogno . Ringraziamo Dinamopress e l’Autore per questo contributo alla riflessione sulla crisi del SSN , per una nuova stagione delle pratiche della cura, per una ri/nascita del SSN . La prima parte dell’articolo è linkabile QUI
Fonte Dinamopress
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Nella seconda e ultima parte di questo articolo, le prospettive teoriche e politiche delle lotte sulla salute, dall’analisi critica del settore pubblico alle nuove forme di politicizzazione delle pratiche della cura
LA RIFLESSIONE TEORICA NELLE NUOVE FORME DI MOBILITAZIONE SULLA SALUTE: RIPOLITICIZZAZIONE DELLA CURA E SOLIDARIETÀ
Donatella Della Porta e Mario Diani, indagando il rapporto tra mobilitazioni sociali e sistemi di welfare, hanno indicato come centrale nelle lotte sociali la capacità di «spostare i confini tra pubblico e privato», superando la visione evolutiva dei cluster di diritti (civili, sociali e politici) e mostrando come tale ridefinizione contribuisca a forgiare e a permettere l’emersione di nuove soggettività, che a loro volta riarticolano con la loro presenza il campo politico complessivo. Le lotte sociali novecentesche hanno favorito «l’espansione del ruolo dello stato» che, intervenendo «con crescente frequenza nei settori relativi alla vita privata, in particolare attraverso la fornitura di servizi sociali e l’azione delle agenzie assistenziali», ha anche prodotto «un maggiore controllo su aspetti della vita che in precedenza sarebbero stati lasciati alla regolamentazione autonoma degli attori sociali, con esiti ambivalenti. L’estensione del servizio sanitario pubblico, ad esempio, ha favorito la standardizzazione dei metodi terapeutici e il trattamento di eventi cruciali nell’esperienza degli individui, come la maternità. È seguita una tendenza alla burocratizzazione e alla razionalizzazione della sfera privata» (Dalla Porta) su cui sono intervenute le critiche di nuove soggettività che a loro volta hanno modificato il campo della riflessione politica. Il movimento femminista, i movimenti di critica alla psichiatria, i gruppi attivi contro la nocività degli ambienti urbani hanno sì propugnato una «estensione del welfare, ma anche una trasformazione delle istituzioni dello stato sociale».
Sempre seguendo la riflessione di Della Porta e Diani, se «molta ricerca, focalizzata su movimenti sociali progressisti, ha sottolineato il loro ruolo nell’espansione dei diritti», tale estensione non è nè univoca nè lineare: «Marshall ha suggerito una evoluzione dai diritti civili a quelli politici e sociali, in realtà le lotte per questi diritti sono state spesso intrecciate, mobilitando sempre nuovi gruppi sociali, dalle donne ai migranti».
L’analisi del rapporto tra lotte sociali e welfare va quindi condotta tenendo conto della mutevolezza e dell’articolazione interna dei diversi gruppi sociali, della trasformazione dei gruppi sociali stessi e del loro rapporto con la configurazione degli ambiti di intervento statale – anche nei termini della retroazione esercitata dai nuovi fronti di diritto istituiti con le lotte precedenti.
Di conseguenza anche le concettualizzazioni, le tattiche e le strategie espresse dalle soggettività attive nelle mobilitazioni sociali vanno lette con la capacità di cogliere forme nuove e non convenzionali di attivismo politico: in quanto implicano l’attivazione di soggettività impreviste, diversi rapporti con l’articolazione dei poteri statali e della governance, in definitiva comportano forme sempre differenti di collocazione all’interno della “azione pubblica”, che richiamavano in precedenza come orizzonte teorico in cui collocarci. A questo proposito l’intento del seguente paragrafo sarà quello di focalizzare l’attenzione su due ambiti che non sono affatto nuovi ma appaiono oggi essere ancora poco in relazione con le riflessioni relative alle lotte in contesto sanitario: il mutualismo e il transfemminismo. Essi possono da una parte aiutare a comporre il quadro di un universalismo da rilanciare innovandolo nelle sue fondamenta – che vada oltre la standardizzazione realizzando forme di apertura alla proliferazione emancipatoria delle differenze – e dall’altra proporre sperimentazioni reali di uscita dallo specifico sanitario per realizzare forme di salute e benessere calate all’interno delle relazioni sociali.
Nelle pratiche di mutualismo e nelle pratiche transfemministe si realizzano infatti sia l’attenzione a quelle che nelle politiche istituzionali risponderebbero alle martellanti raccomandazioni sulla “integrazione socio sanitaria” e sulla “promozione della salute” (ove però queste spesso restano più dichiarate che reali), sia emerge una visione “di parte” della salute, nella misura in cui si mette a critica l’origine (violentemente) genderizzata delle oggettivazioni scientifiche e si producono saperi sulla cura a partire dall’esperienza: modi per liberare una visione politica sulla non-neutralità della scienza e delle discipline tecniche, che altrimenti resterebbe imbrigliata e invisibilizzata dall’oggettivazione dei saperi, dei discorsi e delle pratiche dominanti nella sua gestione istituzionale.
Lo sviluppo di pratiche di mutualismo è stato variamente discusso nella letteratura scientifica focalizzata sui movimenti sociali. Anselmo e altrə hanno usato il concetto di “solidarietà urbana” e hanno messo in luce le possibili interazioni verificatesi tra ambiti istituzionali e azioni di movimento, notando come in alcuni contesti internazionali siano emersi inediti incontri tra «mobilitazioni sociali e (barlumi di) innovazione sociale». Altre riflessioni hanno invece messo in luce la difficoltà riscontrata di dare luogo a strutturali forme di interlocuzione con le istituzioni in questi percorsi. Queste riflessioni, emerse principalmente nel campo della sociologia del welfare e delle politiche sociali, hanno costituito una parte molto minoritaria nella più generale riflessione che in questi anni si è sviluppata a proposito del rapporto tra welfare e mutualismo nel suo complesso.
L’interesse rispetto al mutualismo ha attraversato prepotentemente vari ambiti di discussione sul welfare attraverso cui con il concetto di “mutualismo” si sono identificate genericamente le pratiche del terzo settore, delle fondazioni, delle assicurazioni, di innovativi ibridi “comunitari” tra pubbliche amministrazioni, associazionismo di volontariato e promozione sociale, impresa ecc. Nel dibattito sociologico maggioritario sul tema si sono valorizzate, piuttosto che gli aspetti di azione collettiva e di prassi emancipatoria che hanno caratterizzato i dibattiti di movimento, le questioni relative alle maggiori capacità di affrontare, attraverso di esso, le sfide poste dalla sostenibilità economica dei sistemi pubblici di protezione, dal bisogno di intercettare e intervenire su bisogni “nascosti” con un maggiore prossimità rispetto alle istituzioni pubbliche tradizionali come i servizi sociali o i servizi sanitari, la presunta capacità di azione sul legame comunitario, anche attraverso elementi di responsabilizzazione, partecipazione e coprogettazione con la cittadinanza.
Come ha spiegato recentemente Alberto De Nicola il dibattito di movimento si è polarizzato invece tra le posizioni critiche alla macroarea di concetti di “comunità”, “partecipazione” ecc, vedendone i vettori strumentali di trasformazioni neoliberali, e chi ha collocato in essi possibilità di contro-condotte e contro-dispositivi orientati alle «potenzialità trasformative connesse al ricorso alle comunità e all’agire comunitario nelle politiche del Welfare», alla «politicizzazione e ri-socializzazione dell’economia» anche attraverso la «proliferazione di economie alternative, [e il] ritorno di logiche di azione marginalizzate dai sistemi di Welfare», legate a comunità oppresse e invisibilizzate.
In Grecia l’elaborazione attorno alle social clinics, particolarmente sviluppata per le condizioni di retrenchment del servizio sanitario in seguito all’attacco alla spesa pubblica condotto dalle istituzioni europee, ha assunto caratteri politici fortemente connessi con le dimensioni della resistenza e della sopravvivenza delle comunità, che si sono sviluppati in modo congiunto con forme radicali di conflitto e di autogestione territoriale, sorte in risposta ad una profonda azione di impoverimento delle istituzioni pubbliche strozzate dal diktat europeo. Heath Cabot ha parlato a proposito di “solidarietà contagiosa” come «altra faccia della crisi, che ha indotto nuove forme di partecipazione nella cittadinanza greca». In modo inestricabile rispetto alla crisi indotta dai meccanismi neoliberali, «la solidarietà parla di nuove forme di azione collettiva, comunitaria e sociale», di una nuova idea di «salute emergente nei momenti di bisogno somatico e sociale». In quanto paradigma e pratica della socialità, «la solidarietà riconfigura le interrelazioni tra persone, farmaci, assistenza e società, producendo nuove visioni di cittadinanza e di guarigione somatica e sociale»; tuttavia lo stesso autore riconosce che «la solidarietà ha una vita ambivalente in quanto prodotto diretto dell’austerità».
In campo internazionale, mentre alcune forme di mutualismo sono state valorizzate in quanto strumento di creazione di cura comunitaria radicalmente esterna e alternativa ai dispositivi governamentali dei servizi statali (si veda ad esempio il libro di Spade, “Mutuo aiuto”), alcune riflessioni hanno invece valorizzato la relazione tra le pratiche mutualistiche e i cambiamenti possibili/necessari nell’ambito del welfare state, pensando ad una complessiva “rivoluzione della cura”.
Gabriele Winker e Matthias Neumann appunto individuano «l’opportunità di una diversa etica sociale attraverso la cura stessa» per modificare «la gestione dei tradizionali campi del welfare state, appellandosi a tutti coloro che in tale pratica pubblica sono coinvolti in modo non disinteressato, non competitivo, perché non direttamente quantificabile». In modo simile si sono sviluppate alcune riflessioni femministe e transfemministe (si vedano le opere di Beatrice Busi e Maddalena Fragnito in primis) interessate a «combinare diversi pubblici e diversi gruppi di attivisti nel tentativo di sviluppare connessioni» impreviste.
Le pratiche e le riflessioni femministe e transfemministe, anche attraverso i linguaggi artistici – per l’importanza che l’arte riveste nella ridefinizione potenzialmente conflittuale del sensibile e dei dispositivi che ne consentono la rappresentabilità – hanno messo in luce la trasversalità e la generalità del lavoro di cura, anche lungo le faglie di razzializzazione che definiscono la “divisione globale del lavoro di cura” e le sue contraddizioni. Secondo questa elaborazione l’attività di cura è stata sempre cruciale e può acquisire forme radicali grazie all’intersezione tra sguardi antirazzisti, transfemministi ed ecofemministi, valorizzandone il senso ma anche deromanticizzandola, problematizzandola, e cogliendone l’ambigua natura di dispositivo di produzione e riproduzione di ineguaglianze, «non innocente ma sempre coinvolto nelle relazioni di potere» (come ricordano Krasny e Fragnito). L’etica della cura, che rischia di invisibilizzare la dimensione politica dell’organizzazione della cura (una delle forme di invisibilizzazione è stata la retorica dell’eroismo che ha caratterizzato gli anni pandemici in relazione alle lavoratrici/tori del Servizio Sanitario Nazionale. Su questo si vedano i lavori di Costanza Galanti e Sara Vallerani), va corretta con la riflessione di Mbembe sugli assunti necropolitci che «attraverso la distribuzione della cura ci dicono chi deve vivere e chi no». Da questa collocazione ambivalente si possono guardare «non solo le eziologie della nostra crisi culturale (l’incapacità di pensare le nostre relazioni) ed ecologica, ma anche contestare le scelte su cosa viene curato e cosa no, sulla divisione sessuale e razziale del lavoro come traccia fondamentale delle attività di cura» (come scrive Maddalena Fragnito).
Sugli stessi temi ha insistito il “Manifesto della Cura – Per una politica dell’interdipendenza” (The Care Collective, 2021) che ha rideclinato la cura come ambito di lotta politica sulla base della critica alla sua “naturalizzazione”. Commentando il manifesto Lea Melandri ha scritto: «a mancare finora non sono le esperienze che hanno tentato di spostare la cura fuori dai legami di parentela, ma il riconoscimento e il sostegno a queste forme “universali”, “promiscue” di socializzazione dei servizi e di difesa dei beni comuni, da parte delle istituzioni. Se serve il “mutuo soccorso”, altrettanto essenziale è la possibilità di avere “spazi pubblici”, che favoriscono la vita in comune, affitti calmierati, case, alloggi, scuole, asili, parchi, centri sociali, case di riposo gestite sulla base di una logica che non sia di profitto. Sappiamo quanto l’incuria degli Stati, sotto questo aspetto, sia dominante, lontana dalla prospettiva di una visione, come quella del Manifesto della cura, che vuole essere “femminista, queer, antirazzista ed ecosocialista”, incentivare modalità di proprietà più democratiche, socializzate ed egualitarie come le cooperative, dar vita a nuove istituzioni transnazionali e lavori green. Ma gli ostacoli al cambiamento purtroppo non sono solo quelli che vengono dall’esterno, da un sistema neoliberista che sta investendo con logiche di mercato tutti i bisogni e le manifestazioni dell’umano, mettendo al lavoro la vita». In questo senso la riflessione del libro, a partire dal fatto che la pandemia ha svelato la centralità sociale dei lavori di cura a tutti i livelli (dall3 cosiddette badanti all3 rider fino alle lavoranti del settore sanitario), propone una integrazione tra pubblico e mutualismo, sulla base di una rivendicazione collettiva che nasca dalla generalità di questa soggettività precarizzata, genderizzata e razializzata – cui si propone di impegnarsi in una riflessione politica su di sé e sul proprio modo di costruire relazioni.
Di fronte alla situazione attuale, in cui i le tendenze alla “razionalizzaizone” rischiano di essere gestite solo “dall’alto” – quindi innervate da oggettivismo, competitività e assenza di critica sui temi relativi alla riproduzione sociale nel suo complesso, l’apporto congiunto delle pratiche di mutualismo e della riflessione queer, femminista e trasfemminista sta nella possibilità di un cambio di paradigma epistemologico, che liberandosi dagli assunti positivisti si spinga verso il ricoscimento dei saperi esperienziali, e nella centralità degli aspetti relazionali della politica – che si declini nella capacità di costruire alleanze inattese al di fuori del feticismo identitario dominante. Sulla base di questi apporti sarebbe possibile ricostruire uno spazio in cui ricucire il legame storico – oggi spezzato – tra progettazione istituzionale e “lotte per il progresso dei diritti”, il cui esito ha operato nell’opera riformatrice degli anni ‘70.
Giulio A. Maccacaro indicava già all’inizio degli anni ‘70 la difficile strada da seguire in una fase in cui alla spinta di rinnovamento sociale e politico si affiancavano la tendenziale chiusura degli spazi di redistribuzione economica e l’avanzare di proposte tecnicistiche di razionalizzazione del sistema. Per Maccacaro era chiaro che «la scelta a favore della riforma ospedaliera e il ritardo della medicina extraospedaliera implicano (…) un indirizzo sanitario che è tecnicistico ed è incontrollabile dal basso, e che per questi motivi si articola in modalità tipicamente autoritarie. Anche la medicina preventiva, fra l’altro, si configura così prevalentemente sotto il segno della “diagnosi precoce” (dépistages, screenings di laboratorio) cioè come pratica tecnica, senza intaccare le cause patogene reali (sfruttamento)». Le innovazioni necessarie alla tenuta del sistema, se gestite solo dall’alto, assumono connotati per cui le stesse parole d’ordine del movimento (prevenzione, riforma, ma anche “integrazione sociosanitaria”, “determinanti sociali di salute”, ecc) diventano strumenti di controllo e irregimentazione autoritaria. Di conseguenza emergeva la centralità della questione sanitaria come punto di articolazione tra generale e particolare, intersezione da cui prende forma un campo di ambiguità – entro cui insistere con l’azione politica: «la battaglia sanitaria può essere uno strumento valido all’interno della lotta di classe, nella misura in cui identifica le contraddizioni di classe; non può essere un fine né uno strumento valido, invece, nella misura in cui illude i lavoratori sulla possibilità di ottenere (mediante riforme considerate come variabile indipendente nei confronti del modello prevalente di sviluppo economico) modelli alternativi di sviluppo dell’assistenza. L’errore è dunque di considerare certi sviluppi possibili dell’assistenza (all’interno del sistema) come forme di consumo e di impegno sociale del reddito non subordinate alle esigenze di accumulazione del capitale. In pratica, «La battaglia per la salute, quando si pone come espressione di una esigenza generica di soddisfacimento ai bisogni generali senza un riferimento alle specifiche contraddizioni di classe, si configura come un momento di razionalizzazione interna allo sviluppo capitalistico». «(…) In sintesi, la lotta per la salute può passare attraverso (…) un controllo egemonico degli strumenti di difesa della salute da parte della classe operaia, ma deve giungere soprattutto, e rapidamente, alla lotta contro le vere cause sociali delle malattie. Solo a questa condizione la lotta per la salute può diventare un momento valido della lotta di classe. In questo contesto, si pone subito il più urgente “che fare?” dei medici (e degli studenti in medicina). In parte, il problema è generale e concerne la questione, molto discussa in questi tempi, dell’utilizzazione politica della collocazione professionale dei tecnici, soprattutto se questi non sono inseriti direttamente nella fabbrica. Esistono però alcuni punti precisi che vanno chiariti subito, al di là del problema di fondo di come legare organicamente la propria collocazione professionale alle lotte proletarie:(…) la battaglia per la salute, che nasce alla base dall’avvertimento di contraddizioni acutissime, è stata trasformata in richieste e azioni che nel migliore dei casi precedono o stimolano i piani del capitale, senza discostarsene in alcun modo sostanziale, ma che per lo più addirittura sono a rimorchio degli orientamenti del capitalismo più attivo e lungimirante. È necessario incoraggiare gli sforzi sporadici e limitati delle organizzazioni sindacali per superare le linee più arretrate e per raccogliere e interpretare le reali esigenze dei lavoratori (ad es. nel campo della medicina del lavoro); ma è necessario anche dire che questi tentativi avvengono oggi purtroppo in assenza di una scelta politica di fondo, ed in assenza quindi di un giudizio politico sui gravi errori compiuti sinora».
RICOSTRUIRE UNO SPAZIO IN CUI EMERGANO LE QUESTIONI INVISIBILIZZATE
Le recenti prese di posizione a difesa del servizio sanitario nazionale (CGIL, Fondazione Gimbe, Regione Emilia – Romagna, Regione Toscana) scontano i limiti derivanti dall’assenza di una discussione politica generale che ritematizzi gli aspetti fondanti dell’universalismo, del necessario rinnovamento delle culture professionali, della desanitarizazzione dei bisogni sociali, dell’organizzazione e delle pratiche dei servizi. Le richieste di una quota maggiore di finanziamento pubblico del sistema, se non metteranno in discussione questi elementi – e di conseguenza il contenuto delle pratiche del servizio sanitario – resteranno all’interno di un paradigma di cui gli ultimi anni hanno dimostrato l’insostenibilità politica.
In conseguenza dei fenomeni mostrati nei precedenti paragrafi, la componente pubblica del sistema sanitario è venuta configurandosi come necessaria-ma-subalterna al privatismo delle prestazioni, al corporativismo delle professioni e alla declinazione in forma consumistica dei bisogni delle popolazione. L’intervento statale si è ridotto così ad essere uno stimolo, una tutela e una protezione dal rischio di impresa nel complessivo mercato delle prestazioni e delle tecnologie – il cui protagonismo è riservato a gruppi professionali, imprenditori della sanità privata e reticolari ibridazioni tra questi ultimi e varie amministrazioni locali, da Sud a Nord.
Ricucire il legame – legame che è storicamente esistito come hanno mostrato i paragrafi precedenti – tra “razionalizzazione dall’alto” e “lotte per il progresso dei diritti” significa progettare innanzitutto forme di azione pubblica capaci di incidere su questa indebita convoluzione incestuosa del rapporto pubblico-privato. Maccacaro, consapevole che «la classe è estranea alla dicotomia astratta tra riforme e rivoluzione» (dal manifesto fondativo di Medicina Democratica), ha operato nella finestra di possibilità offerta da questo posizionamento ambiguo. Per riattivarne la potenza si tratta oggi di ricostruire il legame tra le organizzazioni che hanno contribuito alla costruzione politica del Servizio Sanitario Nazionale – e quelle che hanno seguito le alterne vicende delle sue varie implementazioni e modificazioni – in uno spazio in cui possano convergere le esperienze delle mobilitazioni mutualistiche “dal basso” emerse durante la pandemia, dei gruppi di lavoratori e lavoratrici interessati a mettere in questione e a rinnovare il loro modo di lavorare nel sistema sanitario, dei movimenti ecologisti e transfemministi – che da molto tempo non hanno uno spazio comune di riflessione.
Oggi variegate soggettività, molto diverse tra loro, denunciano la crisi della sanità pubblica: è necessario analizzare il senso politico di queste denunce per capire la strategia che queste prese di posizione implicano. Per noi è utile collocare questi fenomeni all’interno di una lettura politica inequivocabile: l’attacco alla riproduzione sociale, esercitato in termini estrattivi dal capitale.
È evidente che vari fenomeni rendono la situazione attuale drammatica per molti altri soggetti – la precedentemente richiamata “tempesta perfetta”: una nuova fase della transizione epidemiologica – in sui si sommano i problemi cronico-degenerativi (aggravati dall’invecchiamento medio delle popolazione e dalla maggiore pressione dei determinanti sociali e ambientali) con le minacce batteriche e virali (aumentate per la maggiore circolazione delle merci e per la pressione ambientale determinata dal modello di produzione – si veda la questione della zoonosi), la crisi finanziaria, la crisi geopolitica ad essa connessa, l’amplificazione di complessità etiche ed organizzative che in questo quadro pongono il problema energetico e la impetuosa innovazione tecnologica. Di conseguenza l’insostenibilità del sistema tradizionale è evidente e problematica per vari soggetti, con posizioni politiche diverse.
La proposta di legge di iniziativa regionale, promossa dalle giunte delle Regioni Emilia Romagna e Toscana, costituisce un luminoso esempio di una mobilitazione a difesa della sanità pubblica che non è venuta “dal basso”: si tratta delle regioni che, nella varietà dei modelli organizzativi, avevano puntato sull’integrazione pubblico-privato a forte regia pubblica (a differenza di quello lombardo che ha demandato la funzione programmatoria al privato), un modello comunque esitato nello sbilanciamento a vantaggio di prestazioni ospedaliere profittevoli – a svantaggio dell’intervento sui determinanti sociali di salute e dell’integrazione sociosanitaria. È principalmente per riprodurne la sostenibilità che adesso queste regioni avanzano la richiesta di accedere a maggiori finanziamenti: per riprodurre il sistema della profittabilità che garantisce bacini elettorali e rendite di posizione. Si tratta di un sistema in cui coesistono una base di servizio pubblico – che deve occuparsi della prestazioni necessarie-ma-poco-profittevoli (pronto soccorso e sue inridazioni territoriali, situazioni complesse socio-sanitarie, residenzialità delle lungodegenza psichiatrica e disabile, ecc) – su cui poi prospera lo strato superiore delle prestazioni profittevoli.
Ci sono dei motivi per cui la mobilitazione non è venuta “dal basso”: oggi esistono due forti limiti, due contraddizioni, due irrigidimenti tattico-identitari che rendono la nostra azione di movimento gravemente irrilevante rispetto all’azione pubblica nel suo complesso, a differenza di quanto si era verificato all’epoca delle lotte per l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale:
- l’incomunicabilità tra le esperienze di mutualismo e autogestione (gli ambulatori popolari europei, per esempio) e le mobilitazioni di tipo professionale, sindacale e salariale. Sono per esempio state poche e di potenza risibile le vertenze in cui si siano vissute reali convergenze tra settori professionali e gruppi di pazienti e cittadinanza. Le mobilitazioni sono fino ad oggi risultate nel complesso tecnicistiche, corporative, poco credibili e lontane rispetto ai reali problemi di salute della popolazione
- nel campo delle soggettività ad alta competenza tecnica (medich3, gruppi professionali interessati al territorio, corpi della medicina di base, gruppi interessati alla community care, ecc.) non si è riuscit3 a costruire un contesto in cui si potesse discutere di come stare tatticamente nei processi di innovazione a trazione del capitale. Questo è accaduto soprattutto per un feticismo tattico – la tendenza a fare discendere dalle scelte tattiche la propria identità – di cui oggi sarebbe ridicolo (se non fosse drammatico) il fatto che i distinguo si concentrano sulle scelte di collaborazione alle innovazioni tecniche guidate negli ultimi 30 anni – a livello nazionale e locale – dal centrosinistra.
Il sistema ha bisogno di produrre innovazioni in questo momento: la sindemia ha mostrato che se non c’è un servizio sanitario che offra una tutela generalista al maggior numero di persone possibile (una salute medio-bassa ma che comunque permetta di estrarre la forza lavoro socialmente necessaria), diventano impossibili anche le prestazioni profittevoli, cioè non funziona neanche più il sistema della commistione incestuosa tra il pubblico e il profitto. Tali necessarie innovazioni si snodano lungo i settori della territorializzazione, della partecipazione e della integrazione sociosanitaria, per esempio attraverso la destrutturazione dell’emergenza-urgenza (Agenas ha promosso una ristrutturazione della suddivisione tra emergenza e urgenza, necessaria affinché i pronto soccorsi possano sopravvivere), che necessita di una forte integrazione con il welfare territoriale.
Si tratta di processi ambivalenti. Nei concetti utilizzati per promuovere l’innovazione dall’alto troviamo anche elementi che sarebbero avvicinabili alla nostra concezione di salute: nel concetto di integrazione sociosanitaria per esempio potremmo trovare gli strumenti per procedere verso una desanitariazzazione dei bisogni sociali e una maggiore attenzione ai determinanti politici, economici, ecologici e ambientali di salute. Quando invece questa innovazione viene gestita dall’alto, come segnalava Maccacaro, diventa una operazione meramente amministrativa e/o repressiva: finalizzata a limitare i costi, a dirimere con sempre maggiore furore oggettivistico quali questioni debbano essere contemplate dentro le prestazioni dei servizi sanitari e quali invece siano da scaricare su un sistema di servizi sociali cronicamente a corto di risorse e innovazioni metodologiche.
Trattandosi di un processo ambivalente dobbiamo decidere come starci; l’elaborazione femminsita era molto avanzata rispetto all’attuale dibattito sul legame tra gli ambulatori popolari e le lotte per cambiare le istituzioni: era lì chiaro che l’autogestione generasse forme di autonomia e soggettivazione, tutelabili solo attraverso l’istituzionalizzazione. Allo stesso modo oggi è chiara nel movimento transfemminista la questione delle tre ecologie (mentale, sociale, ambientale) che è necessario tenere insieme: costruire modi per stare dentro queste dinamiche contraddittorie e in questi processi, con una struttura politica all’altezza, significa necessariamente andare oltre i feticismi identitari – promuovere cioè una politica che tenga al centro le relazioni.
Se le questioni attuali sono leggibili come un attacco alla riproduzione sociale è chiaro che l’allargamento dello spazio pubblico, una lotta sul confine tra pubblico e privato – che si ponga l‘obiettivo di istituire, generare istituzioni – deve giovarsi dell’elaborazione transfemminista di oggi, la cui critica ai modelli normativi di salute si fonda sulla proliferazione emancipatoria delle differenze. Quando infatti oggi si parla di personalizzazione – nell’innovazione gestita dall’alto – si sta dicendo: «adeguiamo il programma della presa in carico, dell’assistenza, dell’approccio clinico e delle prestazioni alle caratteristiche economiche e alle potenzialità produttivistiche della persona, a quanto capitale privato eventualmente si potrebbe mobilitare, a quanto lavoro informale familiare (e non) sottopagato si può estrarre da questa sofferenza». Noi invece, quando parliamo di personalizzazione, stiamo contrastando il concetto normativo di salute, provando a risolvere la contraddizione tra universalismo e differenze, promuovendo nuove e impreviste forme di partecipazione popolare. Allo stesso modo i concetti di “partecipazione”, “integrazione sociosanitaria”, “determinanti sociali di salute”, “equità” – che oggi sono tra i veicoli principali dei tentativi di razionalizzazione dall’alto – richiedono un approfondimento dalla nostra parte, capace di renderci chiaro come vogliamo programmare le nostre strategie di lotta.