La funzione di consultazione e di controllo del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza

 

Fonte Puntosicuro

di   Rolando Dubini, penalista Foro di Milano, cassazionista

La sentenza della Corte di Cassazione di seguito analizzata, del 2017 ma oggi particolarmente istruttiva, fa riferimento alla funzione che il legislatore ha voluto attribuire al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS) nei luoghi di lavoro. Il RLS, ha precisato infatti la suprema Corte, è chiamato a svolgere una funzione di consultazione e di controllo sulle iniziative che il datore di lavoro ha assunte in azienda nel settore della salute e sicurezza sul lavoro: “non gli competono certamente quella di valutazione dei rischi e di adozione delle opportune misure per prevenirli e neppure quella di formazione dei lavoratori”.

Particolarmente illuminante risulta l’insegnamento finale della Cassazione, laddove sottolinea che un RLS delegato del datore di lavoro (o membro del consiglio di amministrazione), dunque in realtà rappresentante diretto del datore di lavoro realizzerebbe una commistione di funzioni inconciliabili, una negazione diretta del sistema di prevenzione e protezione previsto dal D.Lgs. n. 81/2008: “Né questi precisi obblighi [del RLS] potrebbero essere, neppure in astratto, oggetto di delega al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza perché, altrimenti, si verificherebbe una commistione di funzioni tra di loro inconciliabili (essendo alla figura prevista dall’art. 50 affidate funzioni di controllo sull’adempimento degli obblighi datoriali) che negherebbe il sistema stesso delineato nella vigente normativa antinfortunistica (tanto che lo stesso art. 50 comma 7 prevede che l’esercizio delle funzioni di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza è incompatibile con la nomina di responsabile o addetto al servizio di prevenzione e protezione)“.

 

Sezione IV penale – Sentenza n. 48286 del 19 ottobre 2017

Questa sentenza della Corte di Cassazione fa riferimento alla funzione che il legislatore ha  affidato al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS) nei luoghi di lavoro.

Come già ricordato sopra, infatti l’RLS, ha precisato la suprema Corte, è chiamato a svolgere una funzione di consultazione e di controllo sulle iniziative che il datore di lavoro ha assunte in azienda nel settore della salute e sicurezza sul lavoro. Non gli competono la valutazione dei rischi e l’adozione delle opportune misure per prevenirli, funzioni queste che restano di competenza esclusiva del datore di lavoro.

La Corte di Cassazione ha infatti ricordato come le disposizioni in materia di sicurezza previste per il RLS parlano di “attribuzioni”, mentre con riferimento ai datori di lavoro si parla di “obblighi”. Questi obblighi non possono essere oggetto di delega al RLS perché, in questo caso, verrebbe meno il ruolo di controllo, attribuito al rappresentante dei lavoratori, sulle attività poste in essere dal datore di lavoro in merito alla sicurezza e salute dei propri lavoratori.

 Partiamo dal fatto e dall’iter giudiziario.

La Corte di Appello ha integralmente confermato la sentenza con la quale il Tribunale aveva dichiarato il titolare di un’azienda “colpevole a) del reato di cui all’art. 590 commi 1 e 3 c.p., in relazione all’art. 583 c.p., perché, in qualità di datore di lavoro aveva cagionato, per colpa, a un lavoratore della ditta stessa delle lesioni personali gravi consistite nella frattura composta diafisi terzo metatarso del piede sinistro, giudicate guaribili in 121 giorni e b) dell’ulteriore analogo reato per avere cagionato a un altro lavoratore dipendente delle lesioni personali gravi consistite nella frattura scomposta dell’alluce destro e II e III dito del piede destro, giudicate guaribili in più di 40 giorni.

 Secondo quanto contestato nelle imputazioni, in entrambe le occasioni, era accaduto che, mentre il lavoratore sollevava un manufatto metallico di dimensioni 100 cm x 50 cm x 50 cm con l’ausilio di un paranco collegato con catene ad una gru a bandiera, lo stesso si era improvvisamente staccato dal gancio facente parte del sistema di sollevamento, investendo il lavoratore agli arti inferiori.

 La colpa era consistita in negligenza, imprudenza, imperizia, nonché nell’inosservanza di norme preposte alla prevenzione degli infortuni sul lavoro, in quanto il datore di lavoro non aveva adottato le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sarebbero state necessarie a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori, ed in particolare aveva violato:

  • l’art. 70 del D. Lgs. n. 81/2008, in quanto aveva messo a disposizione dei lavoratori un’attrezzatura di lavoro inidonea in relazione alla sicurezza, atteso che gli uncini dei paranchi su cui agganciare le catene della gru a bandiera risultavano privi di elementi di chiusura dell’imbocco, ed erano pertanto inidonei ad assicurare la permanenza della catena sul gancio nel corso delle operazioni di sollevamento e movimentazione dei carichi pesanti;
  • l’art. 71 comma 3 del D. Lgs. n. 81/2008, in quanto non aveva messo in atto le misure tecniche ed organizzative adeguate per ridurre al minimo il rischio di investimento ad opera del carico durante la movimentazione e per impedire l’errato e pericoloso utilizzo dei dispositivi di presa, risultati non appropriati e sicuri in riferimento alla natura e alla forma dei carichi movimentati;
  • gli artt. 37 comma 1 e 71 comma 7 del D. Lgs. n. 81/2008, in quanto non si era assicurato che il personale addetto alle operazioni di movimentazione di manufatti mediante il paranco risultasse dotato delle informazioni, della formazione e dell’addestramento specifico necessari per operare in sicurezza, pur trattandosi di operazioni che richiedevano conoscenze e responsabilità particolari in relazione ai rischi specifici e rilevanti ad esse connessi”.

 

Veniamo al ricorso in cassazione e alle motivazioni.

Il datore di lavoro ha proposto ricorso in Cassazione tramite il proprio difensore di fiducia, articolandolo tre motivi di doglianza. Con la prima denuncia violazione dell’art. 37 del D. Lgs. n. 81/2008 in quanto la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere che non avesse assolto gli obblighi previsti dall’art. 37 del Testo Unico, poiché “entrambi i dipendenti avevano ricevuto una formazione sufficiente ed adeguata al dettato normativo in relazione al lavoro da svolgere (pulitura delle asperità del ferro fuso ed ancora grezzo)” e “uno dei dipendenti, operaio esperto e rappresentante dei lavori per la sicurezza, era stato delegato ad addestrare” l’altro lavoratore. Non aveva tenuto poi considerato che “la movimentazione del paranco non era prevista quale rischio specifico poiché si trattava solo di riuscire ad azionarlo per agganciare i pezzi piccoli”, essendo previsto “per quelli grossi l’utilizzo di un muletto”.

 Con la seconda delle motivazioni ha denunciato la violazione dell’art. 70 del D. Lgs. n. 81/2008 in quanto “entrambi i dipendenti avrebbero posto in essere un comportamento abnorme ed imprevedibile per avere usato, nonostante le precise direttive aziendali prescrivevano l’utilizzo del muletto per la movimentazione dei pezzi di grosse dimensioni, catene e ganci per l’esecuzione del lavoro”.Ha sostenuto, altresì, il ricorrente che il lavoratore che ricopriva la funzione di RLS (il secondo infortunato), dopo l’infortunio verificatosi ai danni dell’altro dipendente, “avrebbe dovuto informarlo delle modalità con le quali lo stesso si era verificato e della non adeguatezza in termini di sicurezza delle procedure che si stavano utilizzando in azienda per sollevare i carichi, cosa che invece non era avvenuta”.

Arriviamo alla decisione in diritto della Corte di Cassazione.

Inammissibili sono stati ritenute da parte della Corte di Cassazione le due motivazioni di ricorso sopraindicate “che, essendo strettamente connesse, sono state esaminate congiuntamente”. La suprema Corte ha messo in evidenza che “il Tribunale di Brescia aveva rilevato che entrambi gli incidenti erano avvenuti con modalità assolutamente analoghe essendosi verificati durante le fasi di movimentazione dei manufatti trattati nella fabbrica che avvenivano mediante l’utilizzo di paranchi (collegati a gru a bandiera) agli uncini dei quali venivano di volta in volta fissati, secondo le caratteristiche dei pezzi da movimentare, altri uncini o catene. Sulla base del materiale probatorio acquisito il Tribunale aveva accertato, altresì, che tutti gli uncini all’uopo utilizzati erano privi dei prescritti dispositivi di chiusura idonei ad assicurare il carico durante il movimento e in tal senso, del resto, aveva deposto il funzionario dell’A.S.L. intervenuto per effettuare le indagini. I due incidenti erano appunto entrambi avvenuti nel momento preciso in cui i carichi, sollevati mediante l’utilizzo di una pulsantiera, si erano sfilati dagli uncini cadendo a terra e finendo sugli arti inferiori dei due operai. Nel corso dell’istruttoria dibattimentale era stato peraltro accertato che queste modalità di spostamento dei manufatti costituivano il frutto di una prassi consolidatasi in azienda”.

Sulla base delle considerazioni che precedono “il Giudice di primo grado ha ritenuto provata la responsabilità penale” del datore di lavoro “stimando fondati gli specifici addebiti mossi nell’imputazione. Per quanto atteneva all’incidente subito da I. invero, l’utilizzo di ganci non idonei all’attività per la quale erano destinati – poiché mancanti degli accorgimenti di sicurezza che avrebbero impedito lo sganciarsi degli uncini –  costituiva violazione delle disposizioni di cui agli artt. 70 e 71 comma 1 e comma 3 d.lgs. 81/2008 avendo il datore di lavoro utilizzato nelle fasi di produzione attrezzature non conformi ai requisiti di sicurezza dettati dall’Allegato V allo stesso d.lgs; dunque, il datore di lavoro aveva omesso di mettere a disposizione dei lavoratori attrezzatura idonee ai fini della sicurezza e adeguate rispetto all’attività da svolgere, con conseguente violazione dell’obbligo primario di porre in essere quelle misure tecniche e organizzative che fossero idonee a ridurre al minimo il rischio connesso con l’attività lavorativa. Queste conclusioni, proseguiva il Tribunale, non potevano poi essere infirmate dalla linea difensiva dell’imputato secondo la quale il gancio destinato alle operazioni di spostamento non avrebbe comportato rischio alcuno qualora correttamente utilizzato e in particolare opportunamente inserito dal lavoratore nel foro del manufatto cosicché l’evento dannoso si sarebbe verificato a causa di un comportamento negligente della stessa persona offesa. Tale obiezione noncoglieva nel segno atteso il costante insegnamento giurisprudenziale secondo il quale l’imperizia o imprudenza del lavoratore non potevano svolgere alcun effetto scriminante laddove il datore di lavoro avesse comunque omesso di predisporre adeguate misure antinfortunistiche. Inoltre, parimenti fondato era l’addebito fondato sulla violazione di cui agli artt. 37 e 71 comma 7 d.lgs. 81/2008 poiché era risultato provato che la formazione e l’addestramento impartiti in azienda al lavoratore erano stati assolutamente superficiali e anche errati anche alla luce delle modalità e delle attrezzature del tutto incongrue con le quali, in ossequio alle disposizioni impartire, venivano eseguite in azienda le operazioni di movimentazione dei manufatti in lavorazione.

 

Quanto poi all’infortunio subito dal lavoratore, la prospettazione difensiva – veicolata dalle parole dello stesso imputato secondo il quale, trattandosi di un manufatto di grosse dimensioni, per lo spostamento avrebbe dovuto utilizzarsi …  un carrello elevatore e non già il paranco – risultava recessiva rispetto alle dichiarazioni dello stesso lavoratore (peraltro confortate da quelle di analogo tenore di altro testimone) secondo le quali nella prassi aziendale il carrello veniva utilizzato normalmente soltanto per movimentare pezzi che non presentassero fori nei quali potessero essere inseriti ganci o catene da collegare al paranco. Del resto, aveva aggiunto [l’infortunato], [il datore di lavoro] era sempre presente in azienda e mai lo aveva ripreso ordinandogli di usare, per certe operazioni, il carrello e non già il paranco … “..

In sintesi, il Tribunale ha ritenuto fondata la prospettazione di accusa che voleva N.M. responsabile: sia per avere posto a disposizione dei lavoratori strumenti inadeguati alla bisogna e dunque ganci privi del sistema di chiusura e catene senza alcuna indicazione della portata massima; sia per non avere adeguatamente informato e formato gli stessi sui rischi e sulle corrette e sicure modalità di esecuzione di quella specifica operazione di traslazione”.

Circa l’”ulteriore argomento difensivo” che il lavoratore vittima del secondo infortunio era un RLS, “che era rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, [e] mai aveva avvisato [il datore di lavoro] dell’inidoneità dei mezzi di sollevamenti utilizzati per le operazioni di movimentazione dei lavorati” la Cassazione ribatte che “l’imputato doveva pur sempre considerarsi investito della posizione primaria di garanzia e a lui direttamente faceva carico, ai sensi dell’ art. 2087 cod.civ. e della normativa infortunistica, l’obbligo di mettere a disposizione dei lavoratori attrezzature idonee a garantire la loro sicurezza”.  E in ogni caso  le funzioni e le attribuzioni proprie del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza sono analiticamente indicate nell’art. 50 comma 1 del D. Lgs. n. 81/2008 secondo il quale “tale lavoratore è chiamato a svolgere, essenzialmente, una funzione di consultazione e di controllo  circa le iniziative assunte dall’azienda nel settore della sicurezza; non gli competono certamente quella di valutazione dei rischi e di adozione delle opportune misure per prevenirli e neppure quella di formazione dei lavoratori, funzioni che restano entrambe appannaggio esclusivo del datore di lavoro. Non a caso, con riguardo al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza la fonte normativa parla di ‘attribuzioni’ mentre, in relazione alle condotte del datore di lavoro, si parla di “obblighi”.

 “Né questi precisi obblighi”ha così proseguito la suprema Corte, “potrebbero essere, neppure in astratto, oggetto di delega al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza perché, altrimenti, si verificherebbe una commistione di funzioni tra di loro inconciliabili (essendo alla figura prevista dall’art. 50 affidate funzioni di controllo sull’adempimento degli obblighi datoriali) che negherebbe il sistema stesso delineato nella vigente normativa antinfortunistica (tanto che lo stesso art. 50 comma 7 prevede che l’esercizio delle funzioni di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza è incompatibile con la nomina di responsabile o addetto al servizio di prevenzione e protezione”.

Alla luce di quanto sopra detto il ricorso è stato pertanto dichiarato inammissibile e la Cassazione “condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 in favore della cassa delle ammende, nonché alla rifusione in favore della parte civile costituita delle spese che liquida in complessive euro 2500, oltre accessori come per legge”.