La corsa agli armamenti non è l’unico modo per garantire sicurezza e stabilità globali

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Spinti dalla volontà di potenza e pensando maggiormente alla difesa dei propri confini da possibili minacce esterne, gli Stati tendono a giustificare in questo modo le spese militari, che spesso finiscono per relegare in secondo piano i bisogni e le aspettative della popolazione.

(Xu Wei/Xinhua via AFP)

Se il processo non è iniziato con la guerra in Ucraina, vista in chiave occidentale, è senza dubbio il fattore che, unito alla percezione di minaccia suscitata da alcuni anni dall’emergere della Cina come potenza mondiale, meglio spiega un corsa agli armamenti che ora sembra inarrestabile.

Secondo gli ultimi dati raccolti dallo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), la spesa militare globale nel 2021 è aumentata dello 0,7% rispetto all’anno precedente e del 12% se prendiamo come riferimento il 2012.

Questo aumento non solo segna il massimo storico dal 1987, raggiungendo un totale di 2,113 miliardi di dollari USA (2,2% del PIL mondiale), ma conferma anche la tendenza al rialzo degli ultimi sette anni. Cifre e tendenze che, a prima vista, sconvolgono quando si sa che coincidono con una crisi economica di dimensioni planetarie (2008) e l’inizio della pandemia di Covid-19 (2020).

Anni, dunque, in cui la crescita economica ha conosciuto un generale declino e dove si presume debbano prevalere le priorità sociali relative alla cura dei più colpiti.

In un contesto che suggerisce sempre più chiaramente un prolungamento della guerra in Ucraina, il tutto sullo sfondo di una dinamica di crescente tensione tra Cina e Stati Uniti – le due potenze impegnate in un processo di confronto alla leadership globale – mentre altre le potenze regionali si sforzano di imporsi sui vicini e sono in corso più di trenta conflitti in varie regioni del pianeta, la corsa agli armamenti è in aumento, stimolata dalla necessità di molti Paesi di modernizzare le proprie capacità militari nella convinzione (a torto) che la loro sicurezza sarà rafforzata.

Stati Uniti e Cina rappresentano rispettivamente il 38% e il 14% di tutte le spese militari nel 2021. Se aggiungiamo India, Regno Unito e Russia, la percentuale sale al 62%. E se aggiungiamo Francia, Germania, Arabia Saudita, Giappone e Corea del Sud, la percentuale totale dei dieci paesi che hanno speso di più per la difesa raggiunge il 75% della spesa totale globale.

Una menzione a parte meritano gli Stati Uniti, con 801 miliardi di dollari di spesa per armamenti, in lieve calo dell’1,4% rispetto all’anno precedente ovvero, in altre parole, il 3,5% del Pil (due decimi di punto percentuale in meno rispetto all’anno precedente) – un calo che non si manterrà quest’anno, dal momento che il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha firmato il 23 dicembre il National Defense Authorization Act. difesa nazionale ) per l’anno fiscale 2023, destinando a quest’area un totale di 857,9 miliardi di dollari, con un aumento annuo del 7%.

La spesa della Cina, dal canto suo, ha raggiunto i 293 miliardi di dollari, pari al 4,7% del PIL. Va notato che la Cina ha registrato progressi ininterrotti in questo settore negli ultimi 27 anni. Molto indietro, la Russia ha aumentato il suo budget per la difesa per il terzo anno consecutivo, con un aumento del 2,9%, ovvero 65,9 miliardi di dollari o il 4,1% del PIL.

Più in generale, i dati raccolti dal SIPRI mostrano che la percentuale media spesa per la difesa da tutti i Paesi del mondo rappresenta il 5,9% del loro bilancio nazionale, e che la spesa militare è aumentata in tre delle cinque regioni prese di mira. Così, in Asia e Oceania, sono aumentate del 3,5% (586 miliardi di USD), in Europa del 3% (418 miliardi di USD) e in Africa dell’1,2% (39,7 miliardi di USD). I cali sono stati registrati in Medio Oriente (3,3%, o $ 186 miliardi) e nelle Americhe (1,2%, o $ 883 miliardi).

Sicurezza e benessere… antitetici?

Cifre e trend, insomma, che fanno prevedere per l’anno in corso un significativo incremento di tali spese, derivante soprattutto dagli effetti dell’invasione russa dell’Ucraina e dal clima di crescente preoccupazione per le sorti non solo di questo Paese ma, a per lo meno, della sicurezza europea nel suo complesso.

Se l’Ucraina ha aumentato la sua spesa per la difesa del 72% da quando la Russia ha annesso la Crimea nel 2014, per un totale di 5,9 miliardi di dollari nel 2021 – anche se tale cifra è inferiore dell’8,5% a quella dell’anno precedente – tutto fa pensare che nel 2022 stabilirà un nuovo record storico in termini di difesa.

Sulla scia di queste decisioni, anche altri Paesi, come la Germania, stanno mostrando un rinnovato entusiasmo nel settore degli armamenti, approvando la creazione di un fondo speciale di 100 miliardi di euro e accelerando il passo per raggiungere il 2% del PIL destinato a difesa entro il 2027.

Lo stesso vale per gli altri Paesi membri più potenti della Nato, che subiscono crescenti pressioni da parte di Washington per rispettare l’impegno preso nel 2014 di raggiungere questa percentuale il prima possibile. Il Giappone, nel frattempo, ha deciso di abbattere il tetto che si era prefissato nel 1976 e di raddoppiare il suo budget per la difesa per diventare la terza potenza militare mondiale entro la fine del decennio.

Il quadro che emerge da questa potente tendenza militarista è indicativo della persistenza di mantra ereditati dalla guerra fredda, che si potrebbero riassumere nell’idea che più armi siano sinonimo di più sicurezza, oppure secondo l’adagio “se vis pacem para  bellum  ” (se vuoi la pace prepara la guerra).

Un quadro mentale incentrato sulla sicurezza dello Stato, alla quale la sicurezza umana è irrimediabilmente subordinata in nome dei presunti superiori interessi dei primi. Così, spinti dalla volontà di potenza e pensando più a difendere i propri confini da possibili minacce esterne, questi stessi Paesi tendono a giustificare spese militari che spesso finiscono per relegare in secondo piano i bisogni e le aspettative degli esseri umani che li abitano.

In questo contesto, e senza mettere in discussione il diritto alla difesa di alcun Paese o il ruolo degli eserciti come ultima risorsa contro chi sceglie la via della violenza, è importante capire, prima di tutto, che la sicurezza e il benessere non sono antitetici, ma costituiscono i due pilastri fondamentali della pace, dentro e fuori i confini di ogni Paese.

In questo senso è elementare comprendere che soddisfare i bisogni della propria popolazione è il modo migliore per garantire la pace e la stabilità sociale di fronte a qualsiasi impulso rivoluzionario o violento.

Inoltre, in un contesto di crescente disagio sociale derivante dall’accumularsi di crisi che minacciano la convivenza, sembra tanto più importante dare priorità al benessere sociale, facendo in modo che i meccanismi sociali, politici ed economici che impediscono a chiunque di essere lasciato alle spalle, nonché per realizzare le riforme necessarie per affrontare il futuro con maggiore fiducia, consapevoli che la crisi climatica richiede un cambio di paradigma strutturale.

D’altra parte, è ovvio che molti dei problemi che portano alla violenza, sia a livello nazionale che globale, non sono, essenzialmente, di natura militare e non possono essere risolti in questo modo.

Di conseguenza, da un lato, gli eserciti e le armi non possono essere gli strumenti privilegiati per risolvere i problemi multidimensionali che caratterizzano la nostra epoca e, dall’altro, occorre potenziare gli strumenti diplomatici e di prevenzione dei conflitti, sia a livello nazionale che internazionale, proprio per prevenire lo scontro violento indesiderato finisce per verificarsi.

Questo articolo è stato tradotto dallo spagnolo.