È il 13 marzo del 1987. Non è una giornata fredda, ma nuvolosa, bizzosa, in fondo triste. Quasi a presagio di cosa sarebbe successo nella stiva di una nave ricoverata in cantiere per manutenzione. Una stiva oscura, minacciosa. Una stiva assassina tanto quanto chi non ha rispettato le più elementari norme di sicurezza, tanto quanto imprenditori senza scrupoli che hanno fatto calare nelle viscere di quel mostro apparentemente inanimato topi dalle forme umane: tredici persone, tredici lavoratori, tredici essere umani.

Non ne usciranno più da quella tomba, voluta, creata dal profitto e dall’ingordigia umane. Resteranno lì a respirare fino alla morte miasmi di anidride carbonica ed altri veleni.

Al mattino la notizia arriva in redazione come una bomba

Soccorritori dei Vigili del fuoco davanti alla gasiera Elisabeta Montanari

È il 13 marzo del 1987. In redazione dell’Unità di Bologna, in via Barberia 4, sono poco più delle nove di mattina. Siamo in pochi. Alcuni sono già in giro per la cronaca nera e giudiziaria e per la bianca, in Comune. C’è Franco De Felice, caposervizio, e poco dopo arriva il caporedattore Rocco Di Blasi. Poi ci siamo io, Alessandro Alvisi che cura la cronaca della città, Franco Vannini per lo sport. Arriva come una bomba la notizia da Ravenna: 13 morti al porto. Dicono: bruciati. Dicono: nella stiva di una nave. Dicono: morti in trappola.

Franco De Felice telefona all’inviato, Jenner Meletti, e lo manda là. Poi mi chiede se ho l’auto. In quel periodo vado a Bologna quasi sempre in auto: Sì, ce l’ho. Allora vai, vai al porto, i sindacati dicono che è nel cantiere degli Arienti, la nave è la Elisabetta Montanari. Poi, Franco, prepara una squadra da mandare a Ravenna. Ci rivedremo lì dopo qualche ora con Claudio Visani, Roberta Emiliani e Andrea Montanari (che poi verrà assunto alla Rai: è bravissimo).

Arrivo poco più delle dieci. Un’ora dopo arrivano da Roma il ministro Zambeletti e da Bologna l’assessore regionale Giuseppe Gavioli con il responsabile della protezione civile regionale Egidi. Siamo tutti davanti alla carcassa di quell’enorme animale spiaggiato e nell’aria c’è un odore di fumo che prende alla gola. Dentro quella pancia inutile e assassina tredici corpi, tredici topi intrappolati. Non in regola, arruolati, si diceva in quelle ore, da caporali criminali e imprenditori senza scrupoli. Qualcuno era al primo giorno di lavoro. Sulla nave nessuna misura di sicurezza, il sistema anti incendio era fuori uso e dunque bastava una scintilla per innescare il meccanismo mortifero. E così è stato. Ed i tredici sono morti soffocati.

Agli inviati de l’Unità davanti alla gasiera Elisabetta Montanari piena di cadaveri

Davanti alla carcassa, era una gasiera e dunque era possibile che ancora ci fossero esalazioni di gas infiammabile, i vigili del fuoco raccontano. Sono Maurizio Galletti e Gianni Casadio: “La maggior parte dei corpi era in fondo alla nave, nella stiva. Le 13 persone che erano dentro non hanno avuto possibilità di scampo”. Lavoravano… parevano dei topi… in una condizione veramente precaria. Non c’erano misure di sicurezza neanche minime”.

Racconta un vigile del fuoco di Ravenna: “Entrare in quell’ambiente invaso dal fumo, dove non si vedeva nulla, senza capire su cosa si stesse camminando si mostrava come sempre un compito assai arduo. Già altre volte l’avevo fatto, indossato l’auto protettore, legato con cordino alla cintola con nodo addominale, nello stesso modo, procedevo in quella sorta di antro infernale, facendo scivolare i piedi sul pavimento, per capire se vi fossero buchi o ostacoli, col dorso della mano cercavo di tenermi vicino ad una parete per intuire il percorso fatto. In questi casi ti sembra di percorrere molta più strada di quella che in realtà stai percorrendo. Stavo facendo tutto così come mi avevano insegnato alle Scuole Antincendio ed avevo personalmente sperimentato in anni di servizio, ma questa volta capivo che era diverso. Nonostante quella sorta di corazza d’impassibilità che ogni pompiere è costretto a calzare in situazioni del genere, quello stato d’animo adrenalinico che ti permette di pensare essenzialmente a quello che stai facendo, senza lasciarti coinvolgere troppo emotivamente, andavo avanti, cercando di evitare possibilmente ogni pericolo, ma nello stesso tempo di non trascurare alcun gesto utile al soccorso; a volte ero costretto a procedere tentoni.

Purtroppo, comparvero le prime vittime, uno era ancora attaccato alla scaletta, perito nel disperato tentativo di salirvi per scappare fuori. Successivamente, io ed i miei compagni cominciammo a trovare le altre salme e portarle fuori una ad una con non poche difficoltà. Alla fine, ne contammo 13. Sul posto erano accorsi anche altri rinforzi giunti da Faenza e Forlì e ci diedero il cambio, in modo potessimo rientrare in centrale. La fatica a cui fino a quel momento non avevamo fatto caso ci piombava addosso con la sua pesante coltre”.

La chiamata di soccorso arrivò alla centrale operativa dei vigili del fuoco alle ore 9,08. Fu formulata come richiesta di “un generico incendio di una nave in banchina”.

Una squadra di manutenzione dei doppi fondi morì per le esalazioni venefiche

L’ultimo corpo ritrovato e portato all’esterno dai vigili del fuoco fu quello di Vincenzo Padua. Era il più anziano, a pochi mesi dalla pensione. Unico dipendente Mecnavi, che lavorava nella stiva come picchettino. Lo ritrovarono appoggiato con la schiena al fianco della nave; con il secchio in mezzo alle gambe e con la testa reclinata sul petto. Praticamente non si era mosso dalla propria posizione di lavoro. Dall’esame dei corpi i medici accertarono che la morte non era avvenuta per le ustioni, né per le alte temperature, ma per l’inalazione dei fumi. I miasmi tossici emessi dalla combustione del poliuretano espanso e della banda catramata che avvolgeva, per l’isolamento termico, i due grandi serbatoi della stiva. I fumi generati dall’incendio erano composti dall’ossido di carbonio e soprattutto da vapori di acido cianidrico. Vapori originati dalla combustione del poliuretano che, se inalati, portano alla perdita di conoscenza entro 10-15 minuti e alla morte per asfissia in 30-40 minuti.

“Uomini ridotti a topi”, denunciò ai funerali l’allora arcivescovo, Ersilio Tonini. Già la sera prima dei funerali nell’intervista rilasciata alla RAI, non usò mezzi termini “Mi viene la voglia di urlare, di gridare, anche se quando avrò davanti a me in Duomo quelle povere salme dovrò contenermi. Ma certe cose dovrò dirle. Come è possibile, in questo momento in cui le tecnologie sostituiscono l’uomo nelle funzioni più complesse, che non si trovino per risparmiare alle creature umane il degrado, i lavori umilianti, la morte”.

Ai funerali la durissima omelia del cardinale Tonini

Nella sua omelia del 16 marzo Monsignor Tonini seppe colpire al cuore con parole indimenticabili; “Fossero andati i genitori a visitare quei cunicoli avrebbero detto; No, figlio mio. Meglio povero, ma con noi. Avrebbero avvertito l’umiliazione spaventosa, la disumana umiliazione. Un ragazzo di 17-18 anni che è costretto a passare dieci ore in cunicoli dove – posso dire la parola? Non vorrei scandalizzare – dove possono camminare e vivere solo i topi! Uomini e topi! Parola dura, detta da un Vescovo all’altare; eppure deve essere detta, perché mai gli uomini possono essere ridotti a topi… Non è vero che il mondo del lavoro è ormai del tutto in ordine. Proprio lì si svelano ora zone di sofferenza estrema e autentica disumanità… I primi a farne le spese risultano essere i giovani, posti di fronte al ricatto: o trascinarsi a una disoccupazione logorante, spregevoli a sé e agli altri, o mostrarsi disponibili a tutto, al lavoro nero, alle prestazioni più umilianti, al rischio di morire come topi in trappola”.

Era intenzione del monsignore suscitare un allarme più generale: “Da Ravenna, dalla stiva di quella nave si leva una denuncia; l’umanità sta distruggendo senza saperlo i suoi tesori più pregiati, il rispetto mutuo, la pietà, la solidarietà, in una parola; la capacità di amare… Bisogna pur dire che si sta perdendo il confine fra il bene e il male: il guadagno, il successo, la riuscita, la propria gratificazione prendono il posto di quella attenzione all’onestà che gli stessi atei della nostra Romagna hanno conservato come tesoro prezioso da trasmettere ai propri figli”.

Sull’infinito strazio dei genitori la voce si fece più cupa, avendo constatato “che cosa accade nei genitori quando gli uccidono un figlio; da allora il sole non è più sole, il cielo non è più cielo, il bianco non è più bianco, niente ha più sapore”.

Quando erano già morti l’azienda titolare del cantiere, la Mecnavi srl, anziché collaborare con i pompieri al tentativo di salvataggio, si affrettò ad inviare una segretaria a ritirare i libretti di lavoro nelle abitazioni delle vittime per tentare in extremis una surrettizia messa in regola.

Nessuna norma di sicurezza era stata rispettata

Ravenna era una specie di fronte del porto. Si lavorava sdraiati all’interno di un reticolo di cunicoli che traversava le stive per ripulire le pareti incrostate di catrame e ruggine. Alcune lamiere del doppiofondo, destinato a ospitare il combustibile presentavano un avanzato stato di corrosione e dovevano essere sostituite. I doppifondi dovevano essere bonificati, eliminando il materiale infiammabile, prima di procedere al taglio delle lamiere usurate e alla loro sostituzione. Un lavoro faticoso, ingrato, sporco, pericoloso, poco qualificato. Sdraiati al buio per 10 ore con stracci, solventi, spatole, raschietti, spazzole di ferro. All’interno della stiva numero 2, alle 7,30 del mattino iniziarono il proprio turno di lavoro diciotto lavoratori. Dipendevano da sei aziende diverse e nessun gruppo di lavoratori, era informato della presenza degli altri. Si trattava di sei carpentieri-saldatori e dodici “picchettini”.

Un sopravvissuto, Widmer Piraccini, racconta al collega dell’Unità, Claudio Visani, come non esistessero tutele né controlli: “Stavamo facendo la pulizia del propellente della nave e l’incendio è scoppiato sopra, nella stiva dove stavano facendo lavori di carpenteria e saldatura. Hanno preso fuoco la catramina e il polistirolo che rivestono le cisterne del gas. Poi il fumo ha invaso anche il doppiofondo dove si trovavano i miei compagni di lavoro. Lì si lavora distesi e si esce strisciando infilandosi poi nei boccaporti. Quelli che erano sopra sono riusciti a scappare, per gli altri invece. Hanno sicuramente provato a uscire ma c’era troppo fumo e poi era andata via anche la luce, non si vedeva più nulla e là sotto non avevano respiratori. Poi, silenzio”.

I fratelli Arienti, titolari della ditta, non fecero neanche un giorno di carcere

Uno dei fratelli Arienti, responsabili della Mecnavi, si presentò il giorno successivo ai giornalisti che seguivano la vicenda «sorridente ed elegante», ribadendo quanto detto l’anno precedente in una intervista: «I sindacati non li voglio. In questa azienda non li ho voluti e spero che non ci siano nemmeno per il futuro». Nemmeno dopo i tredici morti? – gli chiede Jenner Meletti, inviato dell’Unità – «No, perché tanto con i sindacati non cambia nulla. E poi penso – dice papale papale – che è umano che una persona voglia evitare controlli. Questi sindacati sono poi così fastidiosi…». Secondo lui, sulla nave era tutto in regola. C’erano ventilatori ed estintori, tutto a posto. Lascia intendere che la colpa di quanto accaduto ricadrebbe su quei lavoratori che davanti all’incendio si sono lasciati prendere dal panico. Il ritratto che ne fa il cronista è agghiacciante: sorride spesso, fa battute, sgrida i giornalisti per cronache «un po’ cattivelle». Questo imprenditore d’assalto ha 34 anni, un fatturato di 22 miliardi nel 1986, con previsione di 40 per l’anno in corso. «A cosa serve il sindacato?» – si chiede – «Tanto chi entra qui sa cosa lo aspetta». Cosa? «Le regole, come le otto ore di lavoro al giorno, qui non si possono rispettare. Una settimana abbiamo una nave in cantiere, quella dopo magari ne abbiamo sette. I lavori li facciamo contemporaneamente, perché si fa così. Sennò l’armatore, che con la nave ferma perde i soldi, si serve dalla concorrenza». «Voglio essere chiaro: io non ho il potere di vietare la costituzione di una commissione interna, purtroppo. Nei miei cantieri il sindacato non è entrato. Le tutele? Sono convinto che chi vale, chi sa lavorare, sa tutelarsi da solo. Io sono un imprenditore, non un samaritano».

Si scoprì che l’organizzazione del lavoro della società Mecnavi dei fratelli Arienti era basata su un sistema selvaggio di subappalti, lavoro nero e caporalato, sfruttamento e disprezzo delle regole. I processi nei tre gradi di giudizio si chiusero con una beffa. Pene gradualmente ridotte, nemmeno un giorno di galera per i responsabili, in particolare per Enzo Arienti, che continuò poi indisturbato la sua attività nei cantieri navali di Termoli, indagato nel frattempo per una presunta truffa alla Comunità europea.

Fra pochi giorni cadrà il trentasettesimo anniversario e Ravenna come ogni anno tenterà di mantenere vivo il ricordo di quelle tredici vittime dello sfruttamento e del lavoro precario.
I nomi dei 13 operai morti il 13 marzo 1987: Filippo Argnani, Marcello Cacciatori, Alessandro Centioni, Gianni Cortini, Massimo Foschi, Marco Gaudenzi, Domenico Lapolla, Mohamed Mosad, Vincenzo Padua, Onofrio Piegari, Massimo Romeo, Antonio Sansovini, Paolo Seconi.