Di fronte allo stillicidio di morti sul lavoro, la risposta politica data con il Decreto Legge n. 146 del 21 ottobre scorso, si è tradotta in primo luogo nel prevedere il potenziamento della vigilanza. Anche passando sopra alle criticatissime modalità con cui si intende procedere a questo potenziamento, trascurando in questa sede la piaga delle malattie professionali, una domanda sorge spontanea.
Quale vigilanza potrà mai fermare l’azione istantanea, perché di un attimo si tratta, che provocherà l’infortunio, quando uno o più lavoratori cortocircuitano ogni cautela e decidono, in autonomia o perché gli è stato ordinato, di procedere a quella azione che porterà qualcuno alla morte?
In quei momenti, apparentemente senza nessuna particolarità, di una qualunque giornata di lavoro, gli ispettori non ci saranno, per prevedere e prevenire l’azione fatale.
La vigilanza istituzionale, di cui si è legiferato il potenziamento, ha comunque una sua prassi di intervento, per controllare una realtà lavorativa. Prevede verifiche sugli impianti, sulle procedure di sicurezza adottate, sulle tempistiche della formazione…. Svolge una necessaria azione repressiva (su cui sembra si voglia puntare in modo particolare). Ma non sarà presente quando due lavoratori decidono di entrare in un ambiente circoscritto per provvedere ad un travaso di azoto liquido o nel momento in cui un lavoratore sale su un tetto in ondulato di cemento-amianto per procedere a delle riparazioni. Lì non ci sono ispettori. Loro verranno sì, ma dopo. A condurre l’inchiesta per il morto sul lavoro.
In quegli attimi la struttura interna (lavoratori, addetti alla sicurezza, dirigenti e preposti, ditte in appalto) è sola, è lei che deve giocare e vincere la partita della prevenzione. Ma spesso, lo vediamo così bene nelle ultime settimane, quel gioco di squadra fallisce. E ci si chiede perché, ancora nel 2021, la persona che è precipitata dal tetto non sapeva che una copertura in cemento-amianto non sopporta il peso di una persona? E perché chi sovraintendeva a quel lavoro ha fallito nel suo ruolo di controllo? O addirittura quel lavoro lo ha ordinato? Era impossibile prevedere che qualcosa potesse succedere?
Basterà potenziare la vigilanza?. Se guardiamo ai meccanismi degli ultimi eventi tragici, rileviamo che, come quasi sempre succede, questi non sono dovuti a nuovi e imprevedibili fattori di rischio. I lavoratori sono tutti morti per cause che già le leggi degli anni Cinquanta del secolo scorso avevano ben evidenziato, definendo precise norme di comportamento. E, ciononostante, questi infortuni si ripetono, anno dopo anno, con monotona continuità: si muore straziati da una macchinario o cadendo da un’impalcatura o sfondando un tetto, oppure per asfissia in un ambiente chiuso, oppure per schiacciamento o fulminati, o travolti nella caduta di un trattore o da un autocarro in manovra.
Niente di nuovo, tutto prevedibile ed evitabile, tutti pericoli dell’ABC di un manuale di igiene e sicurezza sul lavoro…. E, ciononostante, il lavoratore evidentemente non sapeva che stava rischiando la vita. Quei pericoli sono diventati rischi reali e hanno colpito.
E allora parliamo dell’altra parola magica che sempre si invoca quando si commenta una tragedia sul lavoro. Si dice: dobbiamo formare.
Sui pericoli lavorativi dobbiamo riflettere su cosa e come comunichiamo. Se vogliamo essere efficaci, dobbiamo cambiare angolo di visuale, convincerci che è su quegli attimi, su quelle brevissime fasi di lavoro, spesso decise sul momento, che dobbiamo cercare di incidere.
Dobbiamo informare affinché scattino degli automatismi comportamentali che blocchino determinate azioni “sbagliate”. Dobbiamo riuscire a radicare messaggi basilari su rischi primari (caduta, schiacciamento, asfissia,…) che diventino prassi lavorativa. Messaggi semplici, da veicolare in tutte le lingue necessarie, di allarme e di invito a fermarsi e/o a contattare un superiore. Allora, viene spontanea una domanda: il superiore (preposto, dirigente che sia) è in grado di svolgere questo ruolo di riferimento?
Attenzione. Ci rivolgiamo ad un mondo del lavoro fatto di piccole e piccolissime realtà produttive, in profonda e continua evoluzione, con lavoratori di varie nazionalità, con diversi approcci alla “cultura” della sicurezza, con diversa (se non assente) padronanza della nostra lingua. E i lavoratori sono spesso precari, ricattati o ricattabili, quindi portati a comportamenti sbagliati anche per eccesso di zelo, destinati a frequenti cambi di mestieri, senza collegamenti né solidarietà reciproca. Chiediamoci: come è possibile pensare che sia stato formato il lavoratore morto qualche anno fa nelle cave di Massa Carrara che aveva un contratto di sei giorni?
Informare/formare un lavoratore è quindi difficile. E questo nonostante la formazione sulla sicurezza e sulla tutela della salute all’interno di una realtà lavorativa sia obbligatoria ai sensi del D.Lgs 81/2008 “Testo Unico per la Sicurezza“, e spetti al datore di lavoro. C’è uno stridente contrasto tra i tanti morti di cui parliamo e il teorico diritto di ogni lavoratore di conoscere i rischi della sua mansione ed i criteri per difendersi. Evidentemente qualcosa non ha funzionato….Sicuramente, parlando di infortuni, non abbiamo intercettato quell’attimo.
E prima dell’ingresso nel mondo del lavoro? Il compito spetta alla scuola, all’interno dei percorsi di alternanza scuola-lavoro, una strategia educativa dove l’impresa e l’ente formativo sono invitati ad assumere, nel percorso di istruzione degli studenti, in quanto futuri lavoratori, un ruolo complementare all’aula e al laboratorio scolastico.
Si tratta di far crescere negli studenti la conoscenza “a priori” di quello che sarà il futuro mondo del lavoro, non di un lavoro specifico, ma del “Lavoro”, con le sue regole, i suoi diritti e doveri, le sue problematiche, i suoi pericoli, quelli per così dire ubiquitari e prevedibili. In tal modo il lavoratore di domani, nel suo girovagare da un’attività all’altra, risulterà “vaccinato” e quindi più forte e responsabile.
E’ opportuno, questa è una proposta concreta, fare una verifica a livello centrale della diffusione, della omogeneità e dell’efficacia di questo –importantissimo- percorso formativo obbligatorio. Così come dell’altro, quello istituzionale ex D.Lgs 81.
Ancora una proposta. Parlando di cultura della prevenzione “diffusa e preventiva” dobbiamo riflettere sul ruolo fondamentale che può giocare l’Università, almeno nelle sue facoltà tecnico-scientifiche. Molto probabilmente quei laureati diventeranno le figure (il datore di lavoro, i dirigenti ed i preposti) a cui le leggi attribuiscono le prevalenti responsabilità in materia di tutela della salute sul lavoro. Essi dovranno essere ben consapevoli che chi è dotato di autorità in una struttura gerarchica e quindi dà ordini a dei sottoposti, potrà essere chiamato a risponderne, anche penalmente, in caso di infortunio. E questo anche se non è il responsabile della sicurezza aziendale. Potranno così acquisire quella consapevolezza del ruolo che, vista da questa angolazione, è prima di tutto una forma di autotutela legale; ma che gli fornirà anche la capacità di individuare e porsi in modo positivo rispetto a quelle fasi da cui originano i drammi sul lavoro.
L’Università di Trieste ha attivato, nel 2003, un corso annuale (60 ore) per ingegneri su Sicurezza ed igiene negli ambienti di lavoro. Il corso è obbligatorio per alcune specializzazioni, cioè è uno dei trenta esami curricolari. Per altri indirizzi di ingegneria è facoltativo.
Da quell’anno oltre 700 studenti hanno superato il corso. Questi neoingegneri sono usciti con una buona preparazione sulla sicurezza, con forti contenuti culturali e di coinvolgimento etico. Si spera che sappiano fare tesoro di quegli insegnamenti, in qualunque ambito si trovino ad operare e qualunque sia il loro ruolo, in sostanza che sappiano cosa si può ordinare ad un sottoposto e cosa non si deve ordinare. Che sappiano prevedere, individuare quei momenti fatali e non concorrano a provocarli.
A garanzia di una formazione politecnica che produca cultura che duri nel tempo, non servono convegni, interventi una tantum di esperti, conferenze. Dell’insegnamento deve essere titolare e garante proprio l’università, inserendolo, anche con il necessario contributo di esterni, come nuovo corso all’interno del percorso curricolare.
L’esempio di Trieste dimostra che si può fare.
Sono, le mie, tre proposte molto concrete. Ma, per realizzarle, serve l’adesione forte del Governo italiano, il suo impegno per una lotta contro la piaga dei morti sul lavoro, ben al di là del convenzionale approccio del Decreto 146.
dott. ing. Umberto Laureni
già responsabile del Servizio di medicina ed igiene del lavoro dell’ASS di Trieste
già docente universitario di “Sicurezza ed igiene degli ambienti di lavoro” e “Sistemi integrati di gestione” nella Facoltà di Ingegneria di Trieste