Fonte : fortebraccionews
Morta di fatica. Paola Clemente è morta di fatica. Nel 2015, il 13 luglio. Esattamente quattro anni fa. Nelle campagne di Andria, contrada Zagaria. Mentre era intenta all’acinellatura dell’uva, un’attività massacrante, che costringeva questa signora di 49 anni a stare per ore con le braccia tese e il capo rivolto verso l’alto, per individuare e scartare i chicchi più piccoli, perché sulle nostre tavole arrivassero dei bei grappoli dagli acini omogenei. 40 gradi all’ombra, fuori, in quell’estate maledetta. Molto più caldo dentro, sotto ai tendoni dove questo lavoro si compie, con l’effetto serra che moltiplica a dismisura la percezione del calore. È morta di fatica, Paola. È morta di sfruttamento. È morta di necessità. Perché quei pochi euro al giorno che riceveva dopo aver affrontato una sveglia in piena notte, un lungo viaggio in pullman, una giornata massacrante di lavoro, e il lungo viaggio in pullman per tornare a casa, alla sua famiglia servivano per tirare avanti. È morta stritolata dal sistema infame del caporalato, che lucra sulla disperazione e sul bisogno. Paola è morta di fatica. Non era certo la prima. E purtroppo non è stata neanche l’ultima.
È difficile da accettare guardando quella foto che la ritrae accanto al marito, elegante in un giorno di festa, durante un banchetto. Perché quell’immagine di normale felicità ci dice che quella vita sarebbe potuta capitare in sorte a ognuno di noi. Dietro a quel sorriso, dietro a quello sguardo, c’è un’ombra di preoccupazione, di fatica in agguato, che ci commuove.
“Non si può vivere così”, ha detto Maurizio Landini, nel suo recente viaggio in Puglia, sulle piste del sindacato di strada, strumento prezioso al quale ormai da tempo la Flai ha dato nuova vita e che è diventato il modello di questa Cgil. E di certo non si può morire così.
Noi a Paola diciamo grazie, perché con il suo sacrificio ha scritto una lezione che non dimenticheremo. A chi ci vuole dividere tra italiani e migranti, tra noi e loro, ha mostrato la realtà: “noi” è chi deve lavorare per vivere. Che sia italiano, che sia migrante, si ritrova sulla stessa barca, in un viaggio fatto, spesso, di porti chiusi e navigazione incerta. Chi deve lavorare per vivere sa che nessuno si salva da solo e che la sua unica forza è la solidarietà di chi gli sta accanto. Bajankey, un giovane bracciante della Sierra Leone che vive e lavora in Calabria, una volta, per spiegarmi cos’era, secondo lui, il sindacato, mi ha detto: “una mano non si lava da sola, ce ne vogliono due”. È in questo messaggio, come nel dramma di questa vicenda e nel luogo nel quale si è consumata, che la Cgil affonda le sue radici. In quelle lotte di braccianti che portarono il pugliese Giuseppe Di Vittorio a fondare il sindacato e a iniziare questa secolare battaglia.
Noi a Paola diciamo grazie perché il suo destino tragico ha portato all’approvazione della legge 199 del 2016, la legge contro il caporalato, la legge di Paola, come molti sindacalisti l’hanno ribattezzata. Bersaglio di mille attacchi, anche dell’attuale governo, questa legge, seppure, per ora, incompleta, è stata un enorme sasso nello stagno immobile che nascondeva la realtà delle nostre campagne.
Stefano Arcuri, il marito di Paola, mi disse in un’intervista: “nessuno potrà ridare vita a chi la vita l’ha persa per eccessivo lavoro, per eccessivo caldo, per inalazioni di sostanze chimiche nocive, per sfinimento, per mancanza di soccorso. No. Nessuno potrà ripagare tanto dolore. Ma se a vincere, alla fine, sono i diritti e la legalità, non si sconfigge solo lo sfruttamento, ma si dimostra ai nostri figli che un mondo diverso è possibile”. E noi per questo, tutti insieme, continueremo a combattere.
Riposa in pace, Paola. Possa quella terra, che in vita hai lavorato con enorme fatica fino a morirne, esserti lieve.
Giorgio Sbordoni, RadioArticolo1