Fonte : Sbilanciamoci
Prima del 1978 c’erano le casse mutue, oggi si torna a un sistema sanitario “corporativo” e non universalistico attraverso il predominio delle assicurazioni che fanno capo al welfare aziendale di dipendenti semi-paganti e alla spartizione dei finanziamenti pubblici in Fondi regionali che aggravano le disparità geografiche. Con la flat tax il rischio del colpo finale.
Il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) nasce con la Legge 833 del 27 Dicembre 1978 in un clima politico teso, ma fecondo di avanzamenti politici. Il SSN viene avviato al termine di un percorso di graduale integrazione delle Casse Mutue e delle Opere Pie, fino ad allora titolari del finanziamento e dell’erogazione delle prestazioni sanitarie in Italia. Le Casse Mutue e delle Opere Pie rappresentavano un modello “bismarckiano” corporativo di finanziamento ed erogazione, basato sul modello produttivo fordista in cui la figura centrale era il cittadino-lavoratore, tendenzialmente maschio, che contribuiva direttamente al finanziamento del servizio tramite un prelievo dal proprio salario. Con il SSN si passa a un modello “Beveridge” universalista, basato sulla tassazione generale e diretto a tutta la popolazione, di cittadini e non, come recita l’articolo 32 della Costituzione.
Fino al 1978, le protagoniste dell’assistenza erano quindi la miriade di casse mutualistiche professionali, ciascuna con il proprio bilancio ed il proprio pacchetto di prestazioni “mutuabili”. I gravi limiti di quel sistema erano le disparità che determinava tra le casse dei professionisti e quelle degli operai, e l’esclusione di tutti i soggetti che si trovavano al di fuori del mercato del lavoro.
Con il SSN invece il protagonista divenne il ministero della Salute che, attraverso le declinazioni territoriali delle Unità Sanitarie Locali, cogestite con i Comuni, finanziava ed erogava direttamente gran parte dei servizi.
Questa struttura ha retto per poco più di un decennio, fino alle riforme dell’inizio degli anni ‘90, i D.L. 502/92 e D.L. 517/93, in cui, in un clima politico altrettanto teso, ma di segno inverso a quello degli anni 60/70, si decise unilateralmente e dall’alto di procedere ad una riorganizzazione in senso aziendalistico dell’intero Servizio. Questa trasformazione avvenne nell’ottica di un presunto miglior controllo sulla spesa da parte di enti riorganizzati secondo l’ideologia neoliberale del new public management. Così le Unità Sanitarie Locali, che lavoravano a stretto contatto con il territorio di competenza, vennero trasformate in Aziende Sanitarie Locali, degli enti dotati di “personalità giuridica pubblica, di autonomia organizzativa, amministrativa, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica”. A questo si aggiunse la Riforma Costituzionale del 2001, che, con la modifica dell’articolo 117, ha sancito il trasferimento delle competenze in materia di salute dallo Stato alle Regioni.
Questa brevissima, e molto semplificata, ricostruzione storica, è necessaria alla contestualizzazione dei processi politici e sociali che da trent’anni investono il nostro SSN e che hanno portato alla sua sostanziale frammentazione, con lo spezzettamento in 21 Servizi sanitari Regionali – SSR. Tale federalismo – che, sia detto per inciso, una vittoria del sì al referendum del 2016 non avrebbe minimamente modificato (http://www.saluteinternazionale.info/2016/10/riforma-costituzionale-e-sanita/) – ha portato inoltre a politiche molto diversificate per quanto riguarda la “compartecipazione alla spesa” (i famosi ticket), ma soprattutto ha comportato enormi differenze regionali rispetto ai tempi di attesa. Non analizzeremo in questa sede il ruolo che queste due componenti hanno nell’indirizzare la domanda di salute verso il privato, ma sappiamo tutti quanto costi e quanto tempo ci voglia per effettuare dei semplici esami strumentali in una struttura pubblica o in un centro privato.
La spesa sanitaria
Il GIMBE – Gruppo Italiano per la Medicina Basata sulle Evidenze – fondazione privata molto attiva nello studio e nella diffusione di informazioni relative al funzionamento del Servizio Sanitario ha curato il III Rapporto GIMBE 2018 (http://www.rapportogimbe.it/3_Rapporto_GIMBE.pdf), secondo il quale, in Italia, nel 2016 la spesa sanitaria totale è stata di 157,6 miliardi di euro. Di questi, poco più di 112 miliardi hanno carattere di spesa pubblica e quasi 45,5 miliardi di spesa privata.
All’interno di un Servizio basato sulla tassazione generale, avere quasi un terzo della spesa che deriva da fonti private mette chiaramente in luce, a fronte di crescenti bisogni di salute, l’incapacità del sistema pubblico di assicurare l’intero servizio per la salute a chi risiede in Italia.
Ciò mette anche in serio pericolo l’equità del Servizio stesso, perché lega in larga parte la disponibilità di cure ed assistenza alle capacità economiche delle persone, minando alla base l’esigibilità di un diritto garantito dalla Costituzione.
Il dualismo della spesa privata, diretta e intermediata
Tornando ad analizzare queste voci, possiamo dividere la spesa privata in spesa diretta – letteralmente, “di tasca propria” – consistente in contributi monetari direttamente versati da chi fruisce del servizio, e “spesa intermediata”, corrispondente a contributi monetari che transitano attraverso soggetti, pubblici o privati.
Dei 45 miliardi di spesa privata, quindi, la quasi totalità (l’87,7%), è costituita da spesa out-of-pocket, che, a sua volta, si ripartisce in poco più di 5 miliardi per i servizi ospedalieri, 15,5 miliardi ai servizi ambulatoriali, 13 miliardi per i farmaci.
La “spesa intermediata”, che si aggira attorno al 12% del totale della spesa privata (5,6 miliardi di euro circa, nel 2016), è oggi al centro di un acceso dibattito. L’intermediario – il c.d.“terzo pagante” – può essere un Fondo Sanitario (“secondo pilastro”, che può essere sia pubblico che privato) o un’assicurazione (“terzo pilastro”).
Chiaramente, in quest’ultimo caso si tratta quasi sempre di polizze individuali, capaci di attrarre una fascia della popolazione che può sostenere gli alti costi necessari. Le assicurazioni infatti hanno costi elevati perché, oltre all’assistenza e al sistema di gestione e di controllo, devono garantire anche un margine di profitto. Per ora, comunque, il mercato assicurativo, complice una crisi oramai decennale, resta piuttosto ristretto: nel 2016 la quota di polizze assicurative era circa il 10% della spesa privata intermediata, pari a quasi 600 milioni di euro.
C’è da aggiungere che, mentre nel pubblico i costi di amministrazione sono circa il 15% del totale, nel sistema assicurativo si aggirano sul 25-27%, a cui si aggiunge una percentuale riservata per il “fondo di riserva” – fondo obbligatorio che le assicurazioni devono avere – facendo in modo che solo circa il 50% della spesa alla fine si traduca in servizi.
All’interno della spesa intermediata, il settore più florido è quello dei Fondi Sanitari. Secondo la normativa vigente (d.lgs n. 229 del 1999 l’articolo 9, che modifica l’articolo 9 del d. lgs. n. 502 del 1992, ma soprattutto il DM del 31 marzo 2008 (http://www.rapportogimbe.it/3_Rapporto_GIMBE.pdf) anche conosciuto come decreto “Turco”), i Fondi Sanitari, eredi delle società di mutuo soccorso, enti non profit ma con un taglio decisamente corporativo, possono erogare prestazioni integrative o sostitutive dei Servizi LEA.
I LEA sono i Livelli Essenziali di Assistenza, ossia l’insieme di servizi e prestazioni che ogni Regione dovrebbe erogare con la propria quota di Fondo Sanitario Nazionale (FSN), il finanziamento pubblico basato sulla tassazione generale.
La normativa, almeno nelle intenzioni dichiarate, ambiva a coprire, con un residuo del sistema antecedente al SSN, tutte quelle prestazioni rimaste sempre al di fuori dei LEA, in particolare rispetto all’assistenza odontoiatrica. Ulteriori modifiche e rimaneggiamenti della norma hanno portato però i fondi a divenire da integrativi a sostitutivi del SSN, così permettendo a dei soggetti privati di fornire prestazioni e servizi già compresi all’interno dei LEA e formalmente già erogati dal Servizio Sanitario.
Pertanto, la distinzione tra fondi integrativi e sostitutivi è ormai saltata de facto, e ciascun fondo – secondo l’ultimo decreto in materia Sacconi, 2009 (http://www.gazzettaufficiale.it) che modifica il precedente decreto del 2008 – può erogare prestazioni in sostituzione del SSN fino all’80% delle risorse impegnate dai fondi stessi. Ad oggi, quindi, i fondi – integrativi o sostitutivi che siano – coprono il 68% della spesa intermediata, mobilitando più di 4 miliardi di euro e coprendo, tra iscritti e familiari a carico, più di 10 milioni di persone.
Questo “secondo pilastro” dei Fondi Sanitari presenta però due enormi limiti. In primo luogo, la sua natura corporativa di welfare “aziendale”, essendo legata al lavoro – e, in particolare, al lavoro dipendente – per la natura del tessuto produttivo italiano rende i Fondi iniqui a livello geografico, con un notevole gradiente tra Nord e Sud del Paese.
In secondo luogo, il Fondo Sanitario, garantendo un accesso diretto al servizio senza la mediazione del medico di Medicina generale (MMG), che funge da cosiddetto gatekeeper, stabilendo se e come entrare nei percorsi assistenziali del SSN, va a sostituirsi alle prestazioni pubbliche e può portare, specie nel lungo periodo, ad un serio aumento dei costi senza necessariamente un ritorno in termini di salute.
Nell’attuale crisi del lavoro, questo welfare aziendale affascina sempre di più anche componenti storicamente conflittuali e universaliste come i metalmeccanici, che, nell’ultimo contratto nazionale, hanno preferito l’iscrizione ad un fondo sanitario (http://www.fondometasalute.it/) ad un aumento del salario, innescando una dinamica di involuzione corporativa.
Il diritto alla Salute sotto attacco
Complessivamente, infine, la spesa sanitaria pro capite resta abbastanza contenuta: nel 2016, in Italia la spesa sanitaria pro capite è di 2.470 euro, contro una media Ocse di 2.821. Ciò ha evidenti ripercussioni sull’accessibilità, e quindi sull’equità, del Servizio. Infatti, secondo i dati più affidabili in circolazione, nel 2014 le persone – prevalentemente localizzate nel Mezzogiorno – che hanno rinunciato alle cure sono circa 5 milioni di persone. E ovviamente ciò avviene soprattutto per motivi economici.
Intanto, a fronte dell’esplosione della spesa privata, le risorse pubbliche si riducono essendo il Fondo Sanitario Nazionale in progressivo definanziamento.
In questa dinamica, il ruolo giocato dai “terzi paganti” (assicurazioni e mutue) si va ampliando, poiché queste sostengono di essere più efficienti dei singoli privati ai quali offrono di sostituirli intermediando l’intera spesa privata.
Così, a causa dei notevoli differenziali di costo e qualità tra pubblico e privato, l’opting-out– ossia lo sganciamento degli strati più agiati dai servizi pubblici verso quelli privati – mina il meccanismo solidaristico del welfare state universalistico. La sua realizzazione non è più solo una minaccia ma una realtà sempre più minacciosa, che si nutre di vere e proprie controriforme come la flat tax.
In conclusione, come sostiene il Rapporto della XII Commissione del Senato – Igiene e Sanità, riprendendo le conclusioni del rapporto del 2003 della Commissione sul futuro dell’assistenza sanitaria in Canada, “il sistema è tanto sostenibile quanto noi vogliamo che lo sia”. Le scelte relative all’assicurazione della salute pubblica sono scelte politiche e non traiettorie ineluttabili. Infatti, in questo contesto, la grande assente, ancora una volta, è la salute della popolazione, sempre meno garantita come un diritto e sempre più mercificata. A questa logica corrisponde l’aziendalizzazione del pubblico che risponde alle esigenze di efficienza cercando di erogare il servizio con il minor impegno di risorse possibile. In questa corsa al massimo ribasso, il privato intanto, minimizzando i costi, troppo spesso mostra avere regole, standard e controlli di qualità inferiori, con l’effetto di divenire sempre più competitivo in termini di prezzo offerto al cittadino ma sempre meno sicuro in termini di salute.
*Lorenzo Paglione è membro dell’esecutivo nazionale del sindacato “Chi si cura di te?” ed è medico specializzando all’università La Sapienza di Roma