Difficile da digerire, il lavoro duro dei riders bolognesi

Fonte FiomNotizieBologna

 

 

E’ una serata qualsiasi al circolo Arci RitmoLento.  Sono le dieci e mezza e le attività del circolo sono finite. La maggior parte dei frequentatori inizia ad andare verso il letto. Non è raro che vi siano serate in cui il RitmoLento si riempa di riders. Ma chi sono i riders? I riders sono i tradizionali fattorini inquadrati nel nuovo settore del “food-delivery” (consegna del cibo). Quando termina il turno capita che si riuniscano per conoscersi e confrontarsi.

Dall’autunno scorso i riders della città hanno cominciato a incontrarsi periodicamente e organizzarsi sotto il nome di Riders Union Bologna. L’obiettivo? Rivendicare condizioni contrattuali migliori, ottenere diritti e tutele oggi assenti, divenire un punto di riferimento e di mutuo aiuto per i fattorini della gig economy. L’ultima iniziativa è stata lo sciopero inter-piattaforma di venerdì 23 febbraio, mentre era in corso una pesante nevicata. Nemmeno il freddo e il gelo sono riusciti a impedire il corteo in bicicletta per le vie del centro.

Per comprendere bene in quale contesto si inserisca questo sciopero, quali siano le condizioni dei lavoratori del food delivery e la situazione bolognese, è però necessario fare qualche passo indietro. Fin dall’ inizio del 2016 il settore del food delivery a Bologna era interamente occupato da un’unica piattaforma online che copriva la stragrande maggioranza dei ristoratori bolognesi, PizzaBo, e la cui unica funzione era quella di offrire uno spazio virtuale di incontro tra domanda e offerta. Ogni pizzeria gestiva la consegna degli ordini autonomamente, tramite i propri fattorini. Nel 2016 PizzaBo è stata venduta a Justeat, un colosso mondiale del food delivery. Da quel momento abbiamo assistito a una progressiva invasione di altre compagnie internazionali del settore; una invasione che si è accompagnata a una proliferazione di ristoranti e pizzerie, tanto che Bologna è ormai definita “city of food”(città del cibo).

Al momento sono attive in città anche Deliveroo, Glovo (che non si limita solamente al cibo ma ai più svariati articoli), Sgnam (piattaforma bolognese che ha ricevuto un finanziamento dal Comune tramite il bando Incredibol), Foodora e le minori Winelivery, cosaordino.it, Mymenu.

Quando decidono di occupare il mercato, queste piattaforme hanno bisogno di creare una nuova “flotta” di riders; hanno cioè la necessità di avere a disposizione ogni giorno un numero sufficiente di ciclofattorini che garantisca la distribuzione dei pasti a decine e decine di locali in città, sia a pranzo che a cena. Le forme contrattuali proposte, però, non mirano a conferire continuità e stabilità al rapporto lavorativo; al contrario, sono esclusivamente rapporti di lavoro autonomo. Il discorso retorico che circonda la strategia di assunzione delle piattaforme è quello della “gig economy”.

A questo punto è forse utile capire cosa si intende per gig economy. Con il termine gig economy, che nel dibattito pubblico viene spesso tradotto in “economia dei lavoretti”, si intende l’incontro tra domanda e offerta di singole prestazioni di lavoro tramite l’uso di piattaforme online. Le più note compagnie che operano in questa modalità di “crowdsourcing” sono: Uber per il settore del trasporto privato, il Mechanical Turk di Amazon per le mansioni computazionali non sostituibili da computer e le compagnie del food delivery. Come documenta bene la prima parte di questa puntata di PresaDiretta, il campo di applicazione di questo nuovo modo di costituire i rapporti di lavoro è vasto e potenzialmente in grado di includere ogni attività del settore terziario. Per comprendere quanto il fenomeno sia in espansione basti pensare che anche il Comune di Bologna ha sponsorizzato un’altra piattaforma della gig economy che si chiama Vicker, specializzata nei cosiddetti “micro-jobs”, meglio conosciuti come “lavori di casa”: ripetizioni, piccole riparazioni etc.

Assistiamo però a un paradosso. Secondo le piattaforme, nel momento in cui un rider inizia il turno, non sta lavorando; al contrario il rider si diverte con la propria bicicletta, guadagnandosi per l’occasione, in modo accessorio, qualche soldo: come dimostra la pubblicità sottostante.

Tra le piattaforme esistono alcune differenze sul metodo di retribuzione, che in generale predilige il cottimo, o sulle forme contrattuali (Just Eat e Foodora usano il co.co.co, mentre le altre la prestazione occasionale), ma la condizione generale dei lavoratori è omogenea. Ciascun rider lavora con la propria bicicletta, i propri strumenti di sicurezza come luci e casco, e il proprio smartphone. I riders sono considerati come lavoratori autonomi perché ciascun lavoratore decide quando dare la disponibilità al lavoro, ma è l’azienda ad assegnare i turni e valutare chi far lavorare, attraverso un algoritmo che tiene conto delle prestazioni di tempo ed efficacia. Non sono previste tutele per infortunio o malattia e, in caso di incidente, non c’è modo di farsi riconoscere alcunché dalle aziende. Infine, va da sé, la tipologia e il livello della retribuzione può essere cambiata in modo unilaterale dall’ azienda al momento del rinnovo del contratto.

A Bologna, l’aggressiva campagna di marketing e reclutamento delle piattaforme, ha creato un bacino che si stima di oltre duecento riders. Per la stragrande maggioranza sono studenti universitari, in particolare quelli che lavorano dieci ore a settimana o meno. La composizione sociale e anagrafica di chi lavora almeno venti ore invece è molto più eterogenea. Ci sono studenti dell’Università e dell’Accademia di Belle Arti, musicisti e camerieri, praticanti avvocati e commessi. Ci sono ventenni, trentenni e alcuni quarantenni. C’è chi lo fa come secondo o terzo lavoro, ma anche chi lavora quaranta ore a settimana, che corrispondono a circa ottocento euro al mese. Aldo, nome di fantasia, è tra i pionieri di Riders Union. Ha una laurea e mi racconta che prima di iniziare a fare il rider, ha fatto il praticantato per diventare avvocato. Lavorava almeno 8 ore al giorno, guadagnando tre euro e venti cents l’ora. Portando le pizze guadagna all’incirca la stessa somma, se non qualcosa di più. Questa è una situazione che hanno vissuto o vivono ancora tanti altri suoi colleghi: lavori molto differenti tra loro, lavori dove è anche necessario avere una formazione universitaria, vengono pagati poco o nulla e sono senza tutele e diritti. Aldo è convinto che tra i componenti di Riders Union ci sia un elemento comune e fondamentale: la consapevolezza che il mercato non offra alternative tanto migliori al lavoro del rider, e che le piattaforme speculino tanto, troppo, sul loro lavoro, senza riconoscere alcun diritto o tutela. Le questioni sono tante. Le più sentite sono la mancanza di sicurezza, la paura di essere investiti o farsi male ogni sera; la retorica del passatempo che le piattaforme provano a diffondere è falsa. Si tratta di un lavoro vero, è uno dei concetti che viene ripetuto più spesso nelle assemblee di Riders Union. Infine, vi sono i temi della neutralità e della flessibilità. E’ vero che si può lavorare quando si vuole, ma sono le aziende a confermare la disponibilità e decidere quanto si lavora rispetto alle ore messe a disposizione, valutando le prestazioni lavorative tramite un algoritmo.

riders3Per tutte queste ragioni, ma soprattutto dall’impulso di tanti lavoratori che avevano iniziato a conoscersi davanti ai ristoranti (durante l’attesa della consegna o incrociandosi per strada), nasce Riders Union Bologna.

Da ottobre a oggi questa realtà può contare sull’appoggio solidale di diversi spazi e reti sociali della città. Sin da subito si è sentita l’esigenza di realizzare strumenti di mutuo aiuto, organizzando servizi e pratiche a misura di rider. Insieme al circolo RitmoLento abbiamo realizzato una piccola ciclofficina per autoriparazioni e messo a disposizione bici sostitutive gratuite. Così, chi ha problemi durante il turno, evita di ricevere una cattiva valutazione o di venire sloggato e perdere la paga. Una mappa interattiva, scaricabile su google maps, indica inoltre le ciclofficine popolari e autogestite, gli sportelli sul lavoro e tutte le indicazione utili per ogni evenienza. Senza contare le iniziative politiche per essere riconosciuti non solo dalle piattaforme, ma dalla città intera. Ad esempio: la prima uscita pubblica avvenuta con lo sciopero spontaneo che c’è stato in occasione  della nevicata straordinaria di novembre; il primo sit in sotto le due torri, in cui si è riusciti a ottenere dal Comune di Bologna l’impegno ad aprire un tavolo con le piattaforme; fino ad arrivare al primo sciopero inter piattaforma di venerdì 23 febbraio, anch’esso svoltosi durante una copiosa nevicata. Il primo sciopero organizzato a Bologna ha contato sulla partecipazione di una cinquantina di riders e solidali, nonostante il freddo e il gelo. Il blocco del servizio di food delivery della città è stato quasi totale, solo i fattorini dipendenti dei locali hanno permesso a Just Eat di rimanere operativa. Tanti sono i messaggi di sostegno che sono arrivati in questi mesi da associazioni e normali cittadini, non ultima la solidarietà di tutta la FIOM di Bologna.

Alessandro Caprara – Direttivo Arci RitmoLento, circolo sostenitore attivo della lotta di Riders Union Bologna