Segnaliamo su Collettiva.it un articolo importante di Davide Orecchio sul profilo di rischio contagio da agenti biologici che risulta molto elevato nei mattatoi e nell’industria della lavorazioni carni. |
FONTE COLLETTIVA.IT – AUTORE : DAVIDE ORECCHIO CHE RINGRAZIAMO
Stati Uniti, Canada, Brasile, Germania. L’industria della macellazione registra tassi di contagio più alti della media. Le possibili cause. Gli errori di Trump. Berlino interviene contro il sistema del subappalto
È successo dappertutto. Nord America, Brasile, Europa. I lavoratori delle industrie di macellazione e confezionamento della carne sono stati contagiati dal Covid-19 con tassi nettamente superiori rispetto alla media della popolazione. Gli esperti (per ora) escludono la possibilità di infezione dovuta all’esposizione alla carne. Bisogna dunque ragionare su un circuito di concause, dalla situazione ambientale e sanitaria dei vari stabilimenti alle condizioni delle comunità locali, alle basse temperature all’interno dei macelli. Ma il fenomeno parte dal racconto dei dati.
Negli Stati Uniti – regno planetario della bistecca in tavola – le infezioni nelle aree vicine agli stabilimenti di produzione di carne hanno mostrato subito, a partire da marzo, tassi superiori a quello nazionale. Cifre raccolte dai Centers for Disease Control and Prevention (CDC) indicano cinquemila lavoratori contagiati e almeno 20 morti in circa 180 impianti di produzione. Ma, a inizio maggio, il sindacato Usa United Food and Commercial Workers International Union ha portato numeri diversi: almeno 30 morti a causa del coronavirus e più di diecimila infettati o esposti. In un mattatoio della Smithfield, a Sioux Falls, in South Dakota, su 3.268 dipendenti ne sono stati infettati 870. Negli Usa grandi multinazionali del settore – come JBS, Cargill, la stessa Smithfield, Tyson – concentrano la produzione e vendita di carne bovina coprendo fino all’80% del mercato interno. In ragione di questi volumi, mentre i contagi esplodevano, il presidente Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo, facendo leva sul Defense Production Act, e ha imposto alle aziende di macellazione di proseguire l’attività “vitale”, ma senza prevedere (e vigilare su) misure di contenimento sanitarie adeguate al rischio cui si esponevano i lavoratori.
A quel punto il coronavirus ha iniziato a diffondersi nei macelli Usa a più del doppio del tasso nazionale. “Nelle contee statunitensi con importanti macelli di carne bovina o suina – rileva la Iuf-Uita (il sindacato internazionale del settore) – i casi confermati di Covid-19 sono balzati del 40% nella settimana successiva all’ordine esecutivo, a fronte di un aumento del 19% a livello nazionale”. Nonostante la decisione sciagurata di Trump, già dopo l’11 maggio scorso almeno cinquanta stabilimenti di carne e pollame, divenuti focolai, sono stati temporaneamente chiusi.
Nel vicino Canada – riepiloga sempre la Iuf – due stabilimenti in Alberta hanno vissuto quasi uno su sei dei 3.400 casi di Covid-19 della provincia. La Cargill (duemila dipendenti) ha avuto centinaia di casi e due morti. Alla JBS (filiale del colosso brasiliano) sono stati contagiati oltre seicento lavoratori. Secondo il Factory Farm Collective, citato in un’inchiesta Fatto quotidiano/Mediapart, dall’inizio della pandemia in Canada sono stati contagiati 2.200 lavoratori e ne sono morti cinque.
L’industria del settore attribuisce tassi di infezione così elevati ai test accurati: “Eccettuata l’assistenza sanitaria, non c’è nessun’altra industria o comunità che stia monitorando la propria gente con la stessa diligenza con cui lo stiamo facendo noi”, ha detto a Bloomberg Sarah Little, portavoce del North American Meat Institute. È possibile che sia vero, ma la Iuf elenca anche altre cause: “Il coronavirus si diffonde rapidamente da lavoratore a lavoratore perché la pressione e la velocità sulla linea obbliga gli addetti a restare molto vicini”. Secondo il sindacato, “per mitigare la diffusione del virus e salvare vite umane, le linee di macellazione e di lavorazione devono essere rallentate, così da consentire il distanziamento fisico, e i lavoratori della carne devono essere dotati di attrezzature protettive di altissimo livello”. Inoltre gli ispettori del lavoro “devono applicare costantemente un rigoroso monitoraggio delle procedure di sicurezza”, che preveda anche “test giornalieri obbligatori”.
Si citava la JBS, colosso brasiliano e internazionale. Dal 20 maggio ha iniziato a riaprire i suoi stabilimenti. Eppure il Brasile è uno dei paesi in cui l’epidemia sta crescendo. Ma è anche tra i più grandi produttori ed esportatori mondiali di carne bovina e pollame. La ragione di Stato vince anche qui. Lo stabilimento di Passo Fundo, nello Stato del Rio Grande do Sul, ha quindi ripreso l’attività, nonostante il 24 aprile 19 lavoratori fossero risultati positivi, scrive il World Socialist Web Site: “Alla riapertura dello stabilimento, il numero totale di casi confermati tra i suoi 2.410 dipendenti era salito a 94. Anche se non sono stati registrati decessi tra i lavoratori, sono morte sette persone che sono venute a contatto con i contagiati nello stabilimento”. La Corte suprema del Lavoro di Brasilia ha autorizzato la riapertura di JBS, ma esigendo misure di sicurezza adeguate, tra cui “l’uso obbligatorio di maschere e schermi facciali, l’igiene costante e la distanza tra i lavoratori, che saranno separati da fogli di acrilico”. Passo Fundo non è una metropoli, eppure ha avuto lo stesso numero di morti da Covid-19 di Porto Alegre, che però ha sette volte il numero dei suoi abitanti.
E in Europa? Si sono registrati casi in Francia (più di cento), Spagna, Irlanda del Nord. E in Germania. Qui, ad aprile, nel Baden-Wuerttemberg, duecento lavoratori romeni sono stati infettati dal coronavirus, ha denunciato il ministero degli Esteri di Bucarest. Non erano stagionali, ma dipendenti di un subappaltatore della Müller Fleisch di Birkenfeld. Oltre a loro, altri cento operai erano positivi al virus. La notizia ha aperto un dibattito sulle condizioni del settore, dove la catena dei subappalti mostra lacune non solo per il trattamento economico e “umano” degli addetti (bassi salari, orari di lavoro estenuanti, appartamenti minuscoli), ma a maggior ragione nell’emergenza sanitaria da Covid-19. Operai troppo vicini sulla linea, Dpi non adeguati a proteggerli: questa la denuncia dei sindacati. A metà maggio è esploso un nuovo focolaio a Dissen, in Bassa Sassonia: 92 dipendenti contagiati, tutti in quarantena e stabilimento chiuso.
A questo punto il governo federale tedesco ha deciso di intervenire, e di farla finita col sistema dei subappalti. A partire dal prossimo anno, le aziende del settore della carne la cui attività centrale è la macellazione non potranno più subappaltare. La decisione è stata presa su iniziativa del ministro del Lavoro Hubertus Heil (Spd), che ha dichiarato: “È fondamentale porre fine alla irresponsabilità organizzata nel sistema degli appalti”. Non tutti i politici sono come Donald Trump.