La responsabilità per un infortunio di una cliente in un ristorante

Fonte : Puntosicuro

Autore: Gerardo Porreca 

 

Nell’ambito della rassegna delle sentenze della Corte di Cassazione che hanno riguardato infortuni accaduti in una azienda a terzi estranei e non a lavoratori di essa dipendenti, inseriamo questa sentenza che la suprema Corte ha emanata nel decidere su di un ricorso presentato da una cliente di un ristorante infortunatasi per essere caduta nel locale adibito alla ristorazione in quanto inciampata su una rete lasciata per terra tra i tavoli. Per la individuazione delle responsabilità per quanto accaduto nel locale la Cassazione ha fatto ricorso al gestore di fatto dell’esercizio di ristorazione e alla disposizione di cui all’art. 299 del D. Lgs. n. 81/2008 sull’esercizio di fatto dei poteri direttivi secondo la quale le posizioni di garanzia relative ai datori di lavoro, dirigenti e preposti gravano altresì su colui il quale, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti a ciascuno dei soggetti stessi. Lo aveva già fatto la suprema Corte in una precedente sentenza richiamata in questa sentenza in commento, la n. 10704 del 19 marzo 2012, pubblicata e commentata dallo scrivente nell’articolo “ L’esercizio di fatto dei poteri direttivi ex art. 299 del D.Lgs. 81/08”.

In tema di infortuni sul lavoro, ha chiarito e ribadito la Cassazione, la previsione di cui all’art. 299 del D. Lgs. n. 81/2008, per la quale le posizioni di garanzia gravano altresì su colui che, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti al datore di lavoro e ad altri garanti ivi indicati, ha natura meramente ricognitiva del principio di diritto, affermato dalle Sezioni Unite e consolidato, per il quale l’individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro deve fondarsi non già sulla qualifica rivestita, bensì sulle funzioni in concreto esercitate, che prevalgono, quindi, rispetto alla carica attribuita al soggetto, ossia alla sua funzione formale. Ne deriva, ha sottolineato la Cassazione, che la codificazione della cosiddetta clausola di equivalenza avvenuta con il predetto D. Lgs. n. 81/2008 non ha introdotto alcuna modifica in ordine ai criteri di imputazione della responsabilità penale concernente il datore di lavoro di fatto, i quali sono, pertanto, applicabili ai fatti precedenti all’introduzione dell’art. 299 del D. Lgs. n. 81/2008, senza che ciò comporti alcuna violazione del principio di irretroattività della norma penale.

Alla luce del suddetto principio giuridico la suprema Corte in questa circostanza ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dall’imputato risultato essere il gestore di fatto del ristorante e quindi il soggetto responsabile di quanto accaduto nello stesso alla cliente rimasta infortunata.

Il fatto, la condanna e il ricorso per cassazione

Il Tribunale, in composizione monocratica, quale giudice di appello, ha confermata la sentenza con cui il Giudice di Pace aveva condannato il gestore di un ristorante alla pena di 600 euro di multa oltre al pagamento delle spese processuali e di quelle di costituzione e lite sopportate dalla parte civile nonché al risarcimento del danno morale nei confronti della parte civile costituita per 400 euro e al danno materiale da liquidare in separata sede, in quanto ritenuto colpevole del reato di cui all’art. 590 cod. pen. poiché, per colpa generica, consistita in negligenza, imprudenza e imperizia, lasciando, ovvero consentendo che altri lasciassero, per terra, tra i tavoli una rete da pesca, così omettendo di adottare le cautele necessarie per preservare l’incolumità dei clienti, aveva cagionato delle lesioni personali a una cliente che era inciampata sulla predetta rete e era caduta rovinosamente al suolo.

Avverso il provvedimento del Tribunale l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, adducendo quale unica motivazione una erronea applicazione dell’art. 590 cod. pen. con riferimento alla corretta individuazione del soggetto attivo del reato colposo in una società in accomandita semplice, La tesi che lo stesso aveva sostenuto nel ricorso era stata quella secondo la quale il giudice di appello aveva individuato erroneamente in lui il soggetto responsabile del reato, quale presunto gestore di fatto dell’attività di ristorazione della società in questione, motivando detto assunto sulla base della sola dichiarazione resa in passato da sua figlia che non avrebbe potuto avere effetto estensivo probatorio fino alla data del processo in corso.

Il Giudice di appello, inoltre, secondo il ricorrente, avrebbe completamente disattesa l’auto-assunzione di responsabilità della propria figlia manifestata per iscritto con la sottoscrizione, insieme al difensore, di una nota agli atti del processo, quale rappresentante legale della società che gestiva il ristorante, peraltro, presente in loco al tempo del reato commesso.

Il ricorrente ha evidenziato, peraltro, che la quaestio iuris sottoposta all’esame della Corte di legittimità. la corretta individuazione del soggetto attivo, era stata già affrontata e risolta dal Giudice monocratico del Tribunale che aveva accolto il principio secondo cui non vi era alcun dubbio circa la penale responsabilità della figlia, essendo assolutamente irrilevante la cir­costanza che la gestione di fatto dell’attività di ristorazione competesse a lui, atteso che la stessa, in qualità di datrice di lavoro ed in assenza di apposita delega, era in ogni caso tenuta all’osservanza delle norme prevenzionali. Ha chiesto, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata.

Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione.

La Corte di Cassazione ha ritenuto manifestamente infondati le motivazioni illustrate nel ricorso che ha pertanto dichiarato inammissibile. Appare fuori discussione, ha sostenuto la stessa, che, in casi come quello in esame, la responsabilità dell’amministratore della società, in ragione della posizione di garanzia assegnatagli dall’ordinamento, non viene meno per il fatto che il ruolo rivestito sia meramente apparente. E’ altrettanto vero, tuttavia, che tale posizione di garanzia si affianca, e non si sostituisce a quella del titolare apparente.

In tema di reati omissivi colposi, infatti, ha così proseguito, la posizione di garanzia può essere generata non solo da investitura formale, ma anche dall’esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante, purché l’agente assuma la gestione dello specifico rischio mediante un comportamento concludente consistente nella effettiva presa in carico del bene protetto. La stessa Corte ha chiarito inoltre che, “in tema di infortuni sul lavoro, la previsione di cui all’art. 299 D. Lgs. n. 81 del 2008 (rubricata esercizio di fatto dei poteri direttivi) per la quale le posizioni di garanzia gravano altresì su colui che, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti al datore di lavoro e ad altri garanti ivi indicati ha natura meramente ricognitiva del principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite e consolidato, per il quale l’individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro deve fondarsi non già sulla qualifica rivestita, bensì sulle funzioni in concreto esercitate, che prevalgono, quindi, rispetto alla carica attribuita al soggetto, ossia alla sua funzione formale”.

La codificazione della cosiddetta ‘clausola di equivalenza avvenuta con il predetto D. Lgs. n. 81 del 2008, ha inoltre precisato la Sez. IV, non ha introdotto alcuna modifica in ordine ai criteri di imputazione della responsabilità penale concernente il datore di lavoro di fatto, i quali sono, pertanto, applicabili ai fatti precedenti all’introduzione dell’art. 299 D. Lgs. n. 81 del 2008, senza che ciò comporti alcuna violazione del principio di irretroattività della norma penale e ha citato a proposito la sentenza 10704 del 19 marzo 2012.  Se questi, quindi, sono i principi giuridici di riferimento, ha sottolineato la suprema Corte, il giudice del merito ne ha fatto buon governo.

La titolarità di fatto della posizione di garanzia in capo al ricorrente, ha evidenziato ancore la Sez. IV riferendosi al caso in esame, diversamente da quanto era stato affermato nello stesso e nell’atto di appello, ove era stato sostenuto che la stessa derivasse solo dalla dichiarazione fatta dalla figlia, era emersa invece anche dalla testimonianza del maresciallo dei Carabinieri intervenuto al momento il quale aveva riferito che l’imputato era il gestore di fatto del ristorante, a gestione familiare, ed era sempre presente all’interno dello stesso. La stessa figlia del resto, con riferimento al precedente citato, aveva riferito che, di fatto, il ristorante era gestito dal padre, perché lei ed il marito gestivano un altro locale per cui si recava nel ristorante nel quale era accaduto il fatto saltuariamente, soprattutto la domenica o durante le ferie.

Essendo quindi il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, la suprema Corte in conclusione ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al pagamento della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile che ha liquidate in tremila euro oltre accessori come per legge.

Gerardo Porreca

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