Il prefetto, il brutto e il cattivo: prove atecniche di neo-ostracismo. Ordinanze prefettizie sulle zone rosse e diritto penale “Google Maps”

Le due ordinanze in commento benché non trovino fondamento normativo nelle norme introdotte dal cd. decreto Salvini, ne condividono senz’altro l’opzione securitaria, perseguita con parossismi punitivi ai limiti del surreale. Il commento analizza le numerose criticità delle ordinanze, tanto in prospettiva di legittimità costituzionale, che in chiave politico-criminale.

 

di Carlo Ruga Riva
professore associato di diritto penale, Università degli studi di Milano-Bicocca

 


L’ordinanza della Prefettura di Bologna, 20 dicembre 2018

L’ordinanza della Prefettura di Firenze, 9 aprile 2019

1. Premessa

Due recenti ordinanze prefettizie di contenuto analogo hanno conquistato gli onori della cronaca [1].

La prima, emessa dal Prefetto di Bologna il 23 maggio 2018, vieta per sei mesi lo «stazionamento» in determinate aree della città ai soggetti «che ne impediscano l’accessibilità e la fruizione con comportamenti incompatibili con la vocazione e la destinazione di tali aree» [2], considerando «responsabile di tali comportamenti chiunque sia stato denunciato dalle forze di polizia per il compimento di attività illegali nell’area in questione in materia di stupefacenti ai sensi degli artt. 73,74 DPR 309/’90, in materia di reati contro la persona ai sensi degli artt. 581, 582, 588, 590 c.p. o in materia di danneggiamento di beni ai sensi dell’art. 635 c.p. ovvero sia stato destinatario di contestazioni di violazioni della normativa che disciplina l’esercizio del commercio su aree pubbliche di cui agli artt. 28 e 29 del Decreto Legislativo n. 114/1998».

Si aggiunge poi che «sarà parimenti ritenuto responsabile di comportamenti incompatibili chiunque sia identificato in compagnia di uno dei soggetti destinatari delle denunce di cui al periodo precedente».

La seconda ordinanza, emessa del Prefetto di Firenze il 9 aprile 2019 [3], vieta per tre mesi lo stazionamento in talune aree cittadine negli stessi identici termini e per le stesse categorie di soggetti già messi nel mirino dall’ordinanza bolognese (esclusi gli “accompagnatori” dei denunciati), secondo un meccanismo di replica del divieto già sperimentato nella affine stagione delle ordinanze sindacali sulla sicurezza urbana [4].

Infine, entrambe le ordinanze dispongono l’allontanamento dei predetti soggetti e, in caso di violazione dell’ordine di allontanamento, minacciano l’applicazione delle sanzioni penali previste dall’art. 17 del TULPS e/o dell’art. 650 cp.

I provvedimenti in commento si prestano a diverse critiche: dal punto di vista dei presupposti di adozione dell’ordinanza e dell’incidenza sul diritto costituzionale e convenzionale di libertà di circolazione (par. 2), dei suoi contenuti (par. 3) e, più in generale, si prestano ad una lettura critica dal punto di vista latamente politico-criminale (par. 4): perché di questo si tratta, al di là dello strumento formale impiegato (amministrativo), ovvero della stigmatizzazione tramite ostracismo di soggetti presuntivamente pericolosi, i quali come ai tempi dell’Antica Grecia sono allontanati da certi luoghi, anche se, là, la decisione era presa da un’assemblea di cittadini con almeno sei mila votanti, e non da un unico soggetto.

Inoltre verranno analizzati i punti di contatto e di contrasto con la disciplina, invero eterogenea, delle misure personali di prevenzione (par. 5), e si dedicheranno alcune rapide riflessioni alle sanzioni penali minacciate in caso di inosservanza delle ordinanze prefettizie (par. 6)

2. I presupposti delle ordinanze

Il primo rilievo riguarda l’impiego di ordinanze prefettizie in un ambito (quello della sicurezza urbana) che dal 2008 ad oggi, attraverso vari interventi normativi, ha attribuito ai sindaci e ai consigli comunali (tramite Regolamenti di polizia urbana) specifici e penetranti poteri nella medesima materia.

Le due ordinanze prefettizie contingibili e urgenti scavalcano dunque i poteri sindacali, mediante l’impiego di un potere residuale che viene esplicitamente fondato sull’art. 2 del TULPS, vecchio arnese del 1931 che in linea con i tempi offriva uno strumento incisivo poggiante su requisiti di totale vaghezza: «Il prefetto in caso di urgenza o per grave necessità pubblica, ha facoltà di adottare i provvedimenti indispensabili per la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica».

La Corte costituzionale, con sentenza n. 26/1961, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del citato articolo nella parte in cui attribuisce ai prefetti il potere di emettere ordinanze senza il rispetto dei principi dell’ordinamento giuridico.

Ebbene, i provvedimenti in esame pongono più di un dubbio sulla loro conformità ai principi dell’ordinamento giuridico, sia in relazione ai presupposti di adozione che alla coerenza e proporzione tra requisiti e scopi.

In primo luogo dagli stessi preamboli non traspare l’attualità (e dunque la contingenza) della necessità e urgenza di intervento: l’ordinanza bolognese del maggio 2018 dà conto della precedente (circoscritta al parco della Montagnola) che avrebbe dato ottimi risultati, sicché si tratterebbe di stabilizzarli per il futuro: …«condivisa l’opportunità di una proroga della validità dell’ordinanza in esame, riferita all’area del parco della Montagnola, al fine di consentire una stabilizzazione degli effetti prodotti, nelle more dell’adozione del regolamento comunale attuativo del d.l. n. 14/2017 convertito in l. n. 48/2017».

L’ordinanza fiorentina punta anch’essa, in larga parte, a prevenire illegalità future, espressamente ipotizzate in riferimento alla vicina stagione estiva e al prevedibile aumento dei flussi turistici.

In secondo luogo le ordinanze prefettizie scavalcano i poteri dei sindaci, previsti dagli art. 50 e 54 TUEL proprio per gli stessi scopi (tutela della sicurezza urbana da comportamenti che impediscano l’accesso o la fruizione a luoghi determinati di cui all’art. 9 legge 48/2017), e per altri versi scavalcano il potere del Questore di disporre il divieto di accesso a determinati luoghi (art. 10 dl n. 19/2017, conv. in legge n. 48/2017), ovvero suppliscono con uno strumento generale (e generico!) a discipline speciali e specifiche.

In terzo luogo, per le ragioni che illustreremo più diffusamente oltre (infra, 3), le ordinanze in commento presentano incongruenze eclatanti tra presupposti e scopi, nella misura in cui equiparano la mera preesistenza, anche nel lontano passato, di denunce penali o addirittura di contestazioni per illeciti amministrativi a comportamenti che attualmente impediscono l’accesso a o la fruizione di determinati luoghi, confondendo i fatti con i precedenti di polizia e, si potrebbe dire, lo stato di diritto con quello di polizia.

In altre parole le ordinanze sono irragionevoli in sé, nella parte in cui impediscono la circolazione in determinate aree a persone che non tengono alcun comportamento ostile o minaccioso, ma che vengono reputate pericolose (per quei luoghi e non per altri della stessa città) in quanto raggiunte, anche dieci o venti anni prima, da una denuncia, magari archiviata.

La funzione delle ordinanze, come viene del resto scritto nelle medesime, è di fungere da provvedimento-ponte verso l’emanazione di regolamenti comunali di polizia urbana, exart. 9, comma 3 legge n. 48/2017, che appunto prevedano la tutela di determinate aree cittadine.

Se non che tali provvedimenti potrebbero non essere emanati, o avere contenuto notevolmente diverso, e saranno comunque espressione della discussione più democratica in consiglio comunale, anziché della decisione di un uomo (o di una donna) soli al comando.

Il prefetto funge dunque da volano di accelerazione di provvedimenti che potrebbero essere presi in futuro in modo più stabile da altri.

In questo senso il prefetto opera da cinghia di trasmissione del Governo, secondo il suo inquadramento tradizionale, e sopperisce alle lungaggini democratiche sottese all’emanazione dei regolamenti comunali.

Ancora una volta, come per le ordinanze sindacali rispetto ai regolamenti comunali, si assiste al prevalere del decisionismo di organi monocratici rispetto a meccanismi più democratici rimessi a organi collegiali, in linea con lo spirito dei tempi.

Sul piano politico è notevole che le citate ordinanze, comunque le si valuti nel merito, siano state prese a modello dal Ministro dell’interno, segretario di un partito che per anni ha chiesto addirittura l’abolizione della figura del prefetto, longa manus dell’odiato potere centrale, e che oggi lo stesso Ministro plauda allo scavalcamento delle autonomie locali e dei loro rappresentanti da parte dei prefetti.

Sul piano costituzionale rinvio ai contributi degli esperti, che non mancheranno di analizzare la problematica compatibilità delle ordinanze con gli artt. 13 e 16 Cost.

Mi limito solo ad osservare che la finzione giuridica posta a base delle ordinanze in commento è chiaramente irragionevole e sproporzionata per eccesso rispetto allo scopo (di tutela della sicurezza urbana); chi passeggia pacificamente per le vie di una zona rossa dovrebbe esserne allontanato (o non entrarvi per mesi) sol perché in precedenza, magari dieci anni prima, è stato denunciato (!), ad esempio per avere causato percosse o lesioni colpose, e magari esserne stato poi scagionato.

Sul piano della legalità convenzionale le ordinanze in commento appaiono in contrasto con l’art. 2 Protocollo 4 Cedu, data la vaghezza della base legale (il citato art. 2 TULPS) e della sua necessità in una società democratica [5], in considerazione della sproporzione tra il diritto sacrificato (la libertà di circolazione) e gli elementi posti a fondamento della restrizione (mere denunce per fatti di scarso spessore offensivo, anche risalenti nel tempo, in una epoca in cui non erano prevedibili le conseguenze oggi minacciate).

3. Geografia e sociologia delle ordinanze

L’ordinanza fiorentina è rivolta a coloro che siano stati denunciati nel comune di Firenze per i reati di cui agli artt. 73 e 74 dPR 309/1990, 581, 582, 588, 590 e 635 cp ovvero siano stati destinatari di contestazioni di violazioni della normativa che disciplina l’esercizio del commercio su aree pubbliche di cui agli artt. 28 e 29 del decreto legislativo n. 114/1998.

Non dunque a coloro che siano stati denunciati altrove (ad esempio a Prato o a Bologna), e nemmeno a coloro che siano stati querelati da privati per taluni di quei reati procedibili a querela (ad esempio lesioni dolose lievi o lesioni personali colpose).

Analogamente e ancor più specificatamente l’ordinanza bolognese riguarda i soggetti denunciati nelle zone rosse (non nel più ampio territorio comunale bolognese).

Il catalogo dei reati «presupposto» è curioso: compaiono reati contro la persona non particolarmente gravi (percosse, lesioni dolose e colpose, rissa), un reato contro il patrimonio (danneggiamento) e due reati in materia di stupefacenti (spaccio e associazione finalizzata al traffico, purché radicata a Firenze!), e perfino un illecito amministrativo (commercio non autorizzato), ma mancano reati altrettanto o più gravi: omicidio volontario e preterintenzionale, omicidio colposo, violenza sessuale, stalking, estorsione, truffa, associazione di tipo mafioso etc., oltre a tutti i reati tipici dei colletti bianchi.

 

Sfugge la logica: può essere allontanato il denunciato per percosse, ma non per violenza sessuale, stalking, tentato omicidio od omicidio volontario; può essere allontanata la denunciata per spaccio o associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, ma non la denunciata per associazione di tipo mafioso.

Ovviamente bancarottieri, corruttori, truffatori ed estortori potranno passeggiare liberamente in centro facendo acquisti (eventualmente) costosi, e gli stupratori potranno passeggiare per parchi e viuzze turistiche, tutti, si badi bene, anche se condannati in via definitiva!

Sarebbe probabilmente vano cercare una logica nella selezione dei reati oggetto dell’«interdittiva» prefettizia.

Molto più proficuo ci sembra viceversa mettere a fuoco l’identikit dell’ostracizzato: il violento (ma non troppo), lo spacciatore, il vandalo e il venditore ambulante abusivo.

Quest’ultimo particolarmente sfortunato, perché a differenza degli altri non è stato (nemmeno) denunciato per un reato, bensì solo destinatario di contestazioni di illeciti amministrativi.

In altre parole le ordinanze in commento guardano al tipo (potenziale) di autore, nelle quattro varianti summenzionate, e non tanto ai fatti denunciati [formula già curiosa, perché i fatti per (ambire ad) essere tali sul piano giuridico dovrebbero essere accertati, e non meramente congetturati].

Le ordinanze disegnano una geografia del controllo di polizia a macchia di leopardo, individuando zone rosse (o di serie A) ed altre, inevitabilmente, di serie B, dove gli stessi spacciatori, violenti, vandali e venditori abusivi (rectius denunciati per i reati o illeciti amministrativi pertinenti) potranno allegramente (o mestamente) stazionare.

Lo spacciatore e il venditore abusivo potranno accedere in Vicolo Corto ma non in Parco della Vittoria, per rimanere alla geografia del Monopoli.

Sul piano letterale e certo formalistico il divieto è scritto pure male, avendo ad oggetto il solo «stazionare», che a rigore non comprende il circolare in una zona, ma solo il fermarsi (il corrissante dinamico, futurista, sarà escluso dal divieto? Lo spacciatore infaticabile camminatore eluderà l’ordinanza?).

4. Le parole e le cose

Le ordinanze in parola, secondo l’ormai invalso meccanismo fotocopia tipico già delle ordinanze sindacali più bizzarre [6], si segnalano entrambe – a mio sommesso parere – per uno straordinario slittamento linguistico e ahimè concettuale: trattandosi di parole, è bene riportarle per esteso nel loro contesto più ampio:

così l’ordinanza del Prefetto di Bologna del 20 dicembre 2018 dispone «il divieto di stazionare nell’area del centro storico comprendente Piazza Verdi, Via del Guasto, Via Zamboni nel tratto compreso tra Piazza Rossini e Piazza Puntoni, Via Petroni, Piazza Aldovrandi, Piazza Puntoni, Piazza Rossini, Largo Respighi ai soggetti che ne impediscano l’accessibilità e la fruizione con comportamenti incompatibili con la vocazione e la destinazione di tale area. Sarà considerato responsabile di tali comportamenti chiunque sia stato denunciato dalle forze di polizia per il compimento di attività illegali nell’area in questione in materia di stupefacenti ai sensi degli artt. 73,74 DPR 309/’90, in materia di reati contro la persona ai sensi degli artt. 581, 582, 588,5 90 c.p. o in materia di danneggiamento di beni ai sensi dell’ art. 635 c.p. ovvero sia stato destinatario di contestazioni di violazioni della normativa che disciplina l’esercizio del commercio su aree pubbliche di cui agli artt. 28 e 29 del Decreto Legislativo n. 114/’98».

Se bene intendiamo l’ordinanza dapprima si indirizza ai soggetti che impediscono l’accessibilità e la fruizione di determinate aree della città, per poi «considerare responsabile di tali comportamenti chiunque sia stato denunciato dalle forze di polizia» per taluni reati, o anche solo raggiunto da contestazioni di violazioni amministrative concernenti il commercio su aree pubbliche.

Il passaggio è per così dire magico: si opera una finzione giuridica tra chi impedisce l’accessibilità e la fruizione della città, e cioè chi attualmente usa violenza o vandalizza o spaccia, o minaccia di farlo, e chi è stato denunciato (dalla polizia, non da privati cittadini o associazioni) per quegli stessi fatti (in disparte il solito sfortunatissimo venditore di accendini).

Dal singolo concretamente pericoloso per determinati comportamenti attuali (di impedimento all’accesso o alla fruizione) si passa a categorie astratte di mal-viventi, presunti tali sulla base di mere denunce delle forze di polizia nel passato anche lontano, che d’ora in poi si potranno prestare a immaginabili strumentalizzazioni.

Lo switch è precisamente tra fatti pericolosi e tipi di autore potenzialmente molesti per la sicurezza urbana e per l’ordine pubblico, sulla base di famigerati meri precedenti di polizia.

Bizzarro anche il riferimento, nell’ordinanza bolognese, agli «accompagnatori» dei denunciati, secondo la logica del contagio per peste o del detto «chi va con lo zoppo impara a zoppicare».

Anche qui è meglio leggere l’intera formula: «Sarà parimenti ritenuto responsabile di comportamenti incompatibili chiunque sia identificato in compagnia di uno dei soggetti destinatari delle denunce o delle contestazioni di cui al periodo precedente».

La logica del tipo di autore raggiunge vette himalayane: chiunque, anche non denunciato per alcunché, viene ristretto nella propria libertà di movimento sol perché si accompagna a denunciati (anche per percosse o lesioni colpose!); il Tätertyp si estende alla logica amicale o parentale, non senza ingenerare paradossi nei confronti della vittima: la donna percossa o picchiata dal suo uomo (o più raramente viceversa), qualora mai si riconciliasse con il violento, non potrebbe accompagnarlo nelle zone rosse, e se lo facesse verrebbe allontanata, o in alternativa subirebbe un processo per inosservanza di un provvedimento dell’Autorità (art. 650 cp); il cliente del venditore di rose o accendini rischia pure lui, se “staziona” nei pressi dell’ambulante e magari ci scambia una parola di troppo.

isure di prevenzione senza garanzie

Le ordinanze prefettizie in commento realizzano, nella sostanza, misure di prevenzione pur non senza condividerne le – pur notoriamente lacunose – garanzie tipiche minime.

Le ordinanze prefettizie non sono infatti adottate da un’autorità giudiziaria; diversamente dalle misure di prevenzione personali si rivolgono a soggetti non perché attualmente pericolosi sulla base di elementi di fatto [7] accertati o accertabili, ma a soggetti in quanto meramente denunciati anche nel lontano passato per taluni reati (in gran parte non gravi) commessi in taluni luoghi.

In sostanza i provvedimenti prefettizi in esame comportano una «libertà minorata» [8] in capo ai loro destinatari, secondo la logica delle misure di prevenzione, categoria discussa e discutibile che, in ogni caso, a seguito di talune note pronunce anche recenti della Corte costituzionale e della Corte Edu [9], esige un corredo minimo di garanzie sostanziali e processuali non presente nel caso di specie.

6. Le conseguenze penali dell’inosservanza delle ordinanze prefettizie

Entrambe le ordinanze si conclusioni con la minaccia di sanzioni penali: «Le eventuali violazioni … potranno rilevare anche sotto il profilo della configurazione di illeciti di natura penale, ai sensi e per gli effetti dell’art. 17 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza di cui al R.D. n.773 del 18 Giugno 1931 e/o dell’art. 650 del Codice Penale».

A ben vedere non è affatto scontato che eventuali violazioni delle ordinanze in commento o di altre analoghe integrino gli illeciti penali menzionati.

Quanto all’art. 650 cp, valgono anzitutto le perplessità già espresse sui presupposti di applicazione delle ordinanze emanate (attualità del pericolo paventato e dunque reale necessità e urgenza del provvedimento; ragionevolezza e proporzione della finzione giuridica tra comportamenti che impediscono l’accesso o la fruizione di determinati luoghi e mera preesistenza di precedenti di polizia), presupposti che, come noto, possono e devono essere incidentalmente sindacati dal giudice penale nella misura in cui, ai sensi dell’art. 650 cp, debba valutare se il provvedimento sia stato «legalmente dato» [10].

Si tratta inoltre di provvedimenti rivolti a categorie generali e astratte di soggetti (i denunciati per taluni reati), e non a singoli individui predeterminati; tale circostanza, secondo giurisprudenza ormai consolidata, dovrebbe escludere in radice l’applicabilità dell’art. 650 cp [11].

Più in generale si assiste al convergere, almeno in astratto, di tre diverse sanzioni penali per fatti analoghi (violazioni di divieti di accesso a determinate zone cittadine), a seconda dell’autorità che li ha emanati (Prefetto, art. 17 TULPS; Sindaco, art. 10, comma 2. legge 48/2017; Questore, art. 10, comma 3 legge 48/2017), con, in aggiunta, l’art. 650 cp, comunque minacciato, quasi per un riflesso pavloviano.

Una moltiplicazione delle fonti della «penalità» [12] figlia del moltiplicarsi dei custodi della sicurezza urbana (prefetto, sindaco e Questore).

Insomma, se forse non esiste un diritto penale municipale in senso stretto [13], certo esiste un diritto penale della sicurezza urbana, a presidio, in particolare, di alcune sue aree, un diritto penale “Google Maps”.

6. Conclusioni

Il prefetto, figura fin qui marginale rispetto al sindaco e al questore nella gerarchia dei custodi della sicurezza urbana, si candida ad assumere un ruolo rilevante, anche in surroga dei sindaci inerti o in attesa dei regolamenti di polizia urbana previsti dall’art. 9, come esplicitamente annunciato dal Ministro dell’interno, che, si legge, emanerà apposita circolare, verosimilmente ispirata dal prefetto Piantedosi, autore della prima ordinanza bolognese e attuale Capo di gabinetto del Ministro [14].

Si assiste dunque ad una concorrenza dei tre soggetti istituzionali nel contrasto alla illegalità diffusa e al degrado del decoro urbano, che rischia da un lato di confondere i piani di tutela e i reciproci confini di azione, e dall’altro di fomentare una corsa a chi è più duro contro i “cattivi” che minacciano la sicurezza urbana, vero e proprio contenitore emotivo [15] più che bene giuridico afferrabile.

Infine una notazione cromatica: è notevole che le due ordinanze-pilota concernenti le zone rosse, emanate sentiti i rispettivi Sindaci, provengano da due città storicamente “rosse”.

D’altra parte è appena il caso di ricordare che il fenomeno del «diritto penale municipale» [16] nasce proprio a Firenze, nel 2007, con pioneristiche ordinanze sui lavavetri, e che i governi di sinistra hanno emanato i loro pacchetti sicurezza in modo non dissimile da quelli di destra, secondo logiche che, complessivamente e progressivamente, mirano a porre la sicurezza urbana e il decoro delle città al centro dell’azione preventiva e repressiva, in una prospettiva quasi esclusivamente securitaria e poco o nulla attenta alle ragioni di inclusione e coesione sociale che pure avrebbero un ruolo importante nel contrastare fenomeni di illegalità diffusa e criminalità.

 

Note

[1] Per primi commenti critici a caldo si vedano i comunicati di Area Democratica per la Giustizia-Toscana, Dalle “zone rosse” alle “zone nere”. Spostare le persone non risolve alcun problema”, delle Camere penali di Firenze del 16 aprile 2019 intitolato Presunzione di pericolosità e di Md, Le zone rosse e l’illusione della sicurezza
[2] Ordinanza del Prefetto di Bologna del 23 maggio 2018; in precedenza il 7 dicembre 2017 l’allora Prefetto Piantedosi (attuale capo di Gabinetto del Ministero dell’Interno) aveva emanato ordinanza di contenuto analogo circoscritta al Parco della Montagnola, sulla base dell’art. 2 TULPS, ai sensi del quale «Il Prefetto, nel caso di urgenza o per grave necessità pubblica, ha facoltà di adottare i provvedimenti indispensabili per la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica». Nel preambolo della seconda ordinanza bolognese si dà atto dei buoni risultati conseguiti dalla prima.
[3] Ordinanza del 9 aprile 2019 (Prot. n. 0052287), pubblicata il 10 aprile 2019; il provvedimento è stato oggetto di ricorso al Tar Toscana, redatto dagli avv. C. Benelli, F. Clauser e A. Saldarelli, da parte di un cittadino denunciato per il reato di cui all’art. 73, comma 5 dPR n. 309/1990, con procedimento penale pendente e già intervenuta domanda di ammissione alla sospensione del procedimento con messa alla prova.
[4] Per una analisi di taglio penalistico sulla stagione delle ordinanze sindacali vds. C. Ruga Riva, Diritto penale e ordinanze sindacali. Più sanzioni per tutti, anche penali?, in Le Regioni, n. 1-2 2010, pp. 385 ss.; C. Ruga Riva, Sindaci-sceriffi, cittadini vigilantes e medici spioni: verso la pervasività delle forme di controllo penale, in R. Acquaroli (a cura di), Il diritto penale municipale, Macerata, 2009, pp. 73-87.
[5] Su tali requisiti, posti a fondamento della citata sentenza della Corte Eedu, De Tommaso v. Italia, Grande Camera, 27 febbraio 2017, vedi, a commento della medesima, F. Viganò , Diritto penale contemporaneo, n. 3/2017, pp. 371 ss.
[6] Per una analisi del vasto e talvolta mostruoso campionario delle ordinanze sindacali, strumento che ha scatenato la fantasia giuridica al potere (municipale) vds. C. Ruga Riva, Diritto penale e ordinanze sindacali, cit., pp. 385 ss.
[7] La formula «sulla base di elementi di fatto» ricorre ad es. nel d.lgs n. 159/2011 in ognuna delle tre classi di soggetti destinatari delle misure di prevenzione ivi previste.
[8] Riprendiamo l’espressione da A. Martini, Essere pericolosi. Giudizi soggettivi e misure personali, Torino, 2017, p. 93, che la impiega più in generale come contrassegno delle più varie misure personali di prevenzione
[9] Da ultimo si veda Corte Edu, De Tommaso v. Italia, Grande Camera, 27 febbraio 2017, cit.
[10] Per un’analisi dell’analogo tema dell’applicabilità dell’art. 650 cp alle ordinanze sindacali in materia di sicurezza urbana vds. C. Ruga Riva, Inosservanza di provvedimenti dell’Autorità e ordinanze sindacali in materia di sicurezza urbana: nuove questioni, vecchi problemi, in AA.VV, Scritti in onore di M. Romano, III, Napoli, specie p. 1687 ss.
[11] Vds. per tutti F. Basile, in E. Dolcini-G.L. Gatta, Codice penale commentato, Milano, 2015, sub art. 650, p. 1380. Da ultimo, in giurisprudenza, vds. Cass. pen., sez. I, 3 aprile 2017, n. 37787: «Non integra il reato di inosservanza dei provvedimenti dell’autorità (art. 650 cod. pen.) l’inottemperanza dell’ordinanza contingibile e urgente del sindaco che non riguardi un ordine specifico impartito ad un soggetto determinato e si risolva in una disposizione di tenore regolamentare data in via preventiva ad una generalità di soggetti, in assenza di riferimento a situazioni imprevedibili o impreviste, non fronteggiabili con i mezzi ordinari, non essendo sufficiente l’indicazione di mere finalità di pubblico interesse (esclusa, nella specie, la responsabilità dell’imputato che era stato accusato di non aver ottemperato ad una ordinanza sindacale di divieto di predisporre bivacchi o accampamenti di fortuna consistenti in situazioni di grave alterazione del decoro urbano o intralcio alla pubblica viabilità)».
[12] Sulla tendenza del diritto penale odierno a debordare dai suoi limiti e dalle tradizionali garanzie liberali vds. per tutti V. Manes, Diritto penale no limits. Garanzie e diritti fondamentali come presidio per la giurisdizione, in Questione Giustizia on-line, 26 marzo 2019
[13] Per tale locuzione, sia consentito rinviare a C. Ruga Riva, Il lavavetri, la donna col burqa e il Sindaco. Prove atecniche di “diritto penale municipale”, in Riv. it. dir. e proc. pen. 2008, p. 133 ss.
[14] Cfr. Il Resto del Carlino–Bologna, 10 aprile 2019, consultato in www.ilrestodelcarlino.it/bologna/cronaca/ordinanza-antibalordi-1.4536127.
[15] Per una critica alla sicurezza urbana come bene giuridico, trattandosi più esattamente di un bene-scopo, di un’aspirazione alla vita serena, v. C. Ruga Riva, R. Cornelli, A. Squazzoni P. Rondini B. Biscotti, La sicurezza urbana e i suoi custodi (il sindaco, il questore e il prefetto). Un contributo interdisciplinare sul c.d. decreto Minniti, Diritto penale contemporaneo. Rivista trimestrale, n. 3/2017, specie p. 226 ss.

[16] C. Ruga Riva, Il lavavetri, la donna col burqa e il Sindaco, cit. p. 133 ss.

 

L’articolo è pubblicato nella Rubrica “Diritti senza confini”, nata dalla collaborazione fra le Riviste Questione Giustizia e Diritto Immigrazione e Cittadinanza per rispondere all’esigenza di promuovere, con tempestività e in modo incisivo il dibattito giuridico sulle principali questioni inerenti al diritto degli stranieri. Vai alla Rubrica