Colpire i bambini per punire i genitori.

 

Fonte Saluteinternazionale.info  che ringraziamo 

Chiara Saraceno

I due esempi più espliciti di sacrificio dei diritti dei figli per colpire i genitori riguardano i figli delle coppie dello stesso sesso e delle madri condannate penalmente. Le scelte del governo sulla famiglia.

Colpire bambini e adolescenti per punire i genitori. Non è una storia nuova e non solo italiana. Ma l’Italia, tra i paesi occidentali democratici, mostra una particolare pervicacia nel farlo, anche quando in contemporanea ci si lamenta della bassa fecondità e del crescente squilibrio tra le fasce di età a sfavore dei più giovani. Tra gli episodi più recenti, che vedono il governo in carica attivamente impegnato nel sacrificare i diritti dei bambini, in quanto figli, per colpire i genitori vi è il rifiuto della normativa europea circa il riconoscimento transfrontaliero della bigenitorialità nel caso di figli di coppie dello stesso sesso e la mancata approvazione della proposta di legge che mirava ad evitare che i figli piccoli di madri condannate al carcere siano di fatto sottoposti al regime carcerario. Aggiungerei la resistenza a concedere la cittadinanza italiana a bambini nati e cresciuti in Italia e in Italia scolarizzati, ma con genitori stranieri. Anche se in questo caso non si tratta direttamente di sacrificare i figli per punire i genitori, si tratta pur sempre di considerare questi bambini come pure appendici dei genitori, a prescindere dal fatto che la nazionalità di questi ultimi costituisca un mondo culturale e talvolta anche linguistico largamente sconosciuto ai figli. Aggiungo il paradosso di un paese, l’Italia, che riconosce la cittadinanza (incluso il diritto di voto) ai discendenti dei propri emigrati che spesso non conoscono l’Italiano e mai sono venuti neppure fuggevolmente in Italia, mentre lo ostacola a chi in Italia nasce e in Italia si forma.

 

Ma torniamo ai due esempi più espliciti di sacrificio dei diritti dei figli per colpire i genitori, che riguardano, appunto, i figli delle coppie dello stesso sesso e delle madri condannate penalmente.

Nel caso dei figli di coppie dello stesso sesso ciò che si vuole colpire è la deviazione dal processo di filiazione basato sulla norma eterosessuale. Una norma che, in Italia, vale non solo per l’accesso alle tecniche di procreazione assistita, anche con ricorso a donatrice o donatore, ma anche per l’adozione. In entrambi i casi, infatti, la possibilità è concessa legalmente solo alle coppie di persone di sesso diverso, per le quali l’infertilità non è considerato un impedimento a diventare genitori, laddove lo è per le coppie dello stesso sesso.

 Il sacrificio dei diritti dei bambini in nome della difesa della famiglia standard ha una lunga storia che in Italia è durata e dura più a lungo che nella maggior parte dei paesi democratici occidentali. Fino al 1975 i figli nati fuori dal matrimonio venivano addirittura dichiarati illegittimi. Inoltre, in nome della difesa della famiglia “legittima”, non potevano essere riconosciuti dal genitore che li avesse procreati in una relazione adulterina (e la madre, se sposata con un’altra persona, non poteva dichiarare che il figlio non era del marito, mentre questo poteva disconoscerlo).Vale la pena di osservare che lo statuto di “illegittimo” era molto pesante non solo in punto di vista oggettivo, in quanto privava i nati in queste circostanze della protezione legale di uno dei genitori (per lo più il padre) e dello stesso diritto a mantenere una relazione con lui. Lo era anche da un punto di vista simbolico, in quanto di fatto bollava quei bambini come coloro che non avrebbero avuto diritto a nascere. Paradossalmente, non era la famiglia “naturale”,  ovvero la filiazione avvenuta a seguito di un rapporto sessuale tra un uomo e una donna, anche quando legati da vincoli di affetto, ad essere difesa, bensì quella legittima, fondata sul matrimonio. Un paradosso riconfermato anche quando nel 1975 venne data la possibilità di riconoscere anche i figli nati da relazione adulterina e la terribile dizione “illegittimo” venne sostituita dal più soft “naturale”: uno statuto che continuava a rimanere più debole, dal punto di vista dei diritti e dell’accesso legale a relazioni di parentela, di quello “legittimo”. Si è dovuto aspettare fino al 2012 perché, superando il restrittivo articolo 30 della Costituzione, venisse eliminata ogni distinzione tra figli nati dentro e fuori dal matrimonio, dal punto di vista sia dell’accesso al riconoscimento da parte di entrambi i genitori, ed anche all’intera parentela di entrambi, sia della assenza di gerarchie tra figli legittimi e naturali rispetto all’eredità.

È bene ricordare che uno dei motivi per cui in Italia si tardò ad arrivare a questa equiparazione riguardava la resistenza opposta da alcuni settori politici e culturali alla estensione anche ai figli di rapporti incestuosi del diritto ad essere riconosciuti da entrambi i genitori. Un’estensione che alla fine passò, pur subordinata al parere di un giudice minorile che ne valuti l’opportunità dal punto di vista del benessere del bambino.

È appunto il benessere del bambino e il suo diritto alle relazioni familiari il principio che ha guidato, sia pur tardivamente, l’equiparazione di tutti i nati rispetto al riconoscimento del radicamento in un rapporto di filiazione. In ballo non è più la difesa ad oltranza di un modello di famiglia anche a spese dei diritti dei figli, dei bambini, ma la difesa dei diritti e del benessere di questi ultimi, in ottemperanza alla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia del 1990. Così come si può allontanare un minore dai suoi genitori e togliere a questi la potestà genitoriale, se sono considerati nocivi – non in astratto, o perché non rispettano le forme standard, ma in comportamenti accertati caso per caso – non si può negare ad un bambino il diritto alle relazioni familiari in cui nasce e cresce solo perché non corrispondono al modello standard. Ricordo che neppure l’essere responsabili di gravi delitti penali porta automaticamente alla sospensione legale della genitorialità.

Superata la distinzione tra figli legittimi e illegittimi (o naturali), il sacrifico dei figli in nome di un principio non è finito.  Abbandonata la difesa ad oltranza della famiglia “legittima” ora si è passati a difendere quella “naturale”, in nome della quale si impedisce ai figli di coppie dello stesso sesso di essere riconosciuti da entrambi i genitori che li hanno voluti. Di conseguenza   questi bambini si trovano nella condizione dei figli cosiddetti illegittimi fino al 1975: impossibilitati ad essere riconosciuti da un genitore, perciò anche con una parentela legalmente dimezzata. Si dice che si vuole impedire la legalizzazione della gestazione per altri. Ma allora perché coinvolgere anche i figli di coppie di donne? In effetti, in tutto questo dibattito la genitorialità delle coppie lesbiche viene totalmente cancellata. Ed anche quando una delle madri è la gestante e una è la donatrice di ovuli, la maternità della seconda non viene riconosciuta, a differenza di quanto avviene per la paternità dell’uomo che, nella coppia gay o in quella eterosessuale, fornisce il seme. Inoltre è un impedimento che di fatto non colpisce le coppie di sesso diverso che ricorrono alla gestazione per altri (la maggioranza di chi vi ricorre) e possono bypassare facilmente i divieti e le difficoltà che ne derivano.

Si può e deve discutere dei problemi etici e di salute della donna connessi alla gestazione per altri (ma anche alla ovo-donazione, cui ricorrono molte coppie “regolari” senza che venga sollevato alcun dubbio etico e sanitario, nonostante richieda interventi sanitari pesanti  sulla donna che vi si presta), alle possibili forme di sfruttamento cui può dare luogo e a come possono essere contrastate, così come si deve affrontare la questione del diritto di bambini nati in questi modi di conoscere le proprie origini. Ma sono questioni diverse da quelle del diritto dei bambini a non essere sacrificati sull’altare di principi e di, legittime, divergenze valoriali, negando loro il diritto ad avere entrambi i genitori che li hanno voluti. In primo luogo occorre distinguere tra filiazione per tramite della gestazione per altri e filiazione per tramite di donazione di seme, quindi, nel caso delle coppie dello stesso sesso, tra paternità gay e maternità lesbica. In secondo luogo occorre garantire ai bambini il diritto ad avere entrambi i genitori che li hanno voluti, anche se il modo in cui sono venuti al mondo non corrisponde a quello standard e, nel caso della gestazione per altri, illegale nel nostro paese, ma legale in altri.

Il ricorso all’adozione speciale, proposto come soluzione per la bigenitorialità omosessuali, oltre ad essere finanziariamente oneroso, è un percorso insicuro, perché affidato alla valutazione dei servizi sociali e dei giudici come, se a priori, essere un genitore dello stesso sesso di quello biologico costituisse un elemento di rischiosità per il bambino, oppure chiedesse capacità speciali, da verificare puntualmente. E’ anche un processo lungo, che oltre a lasciare di fatto il bambino in uno stato di privazione legale di uno dei due genitori, espone al rischio che, in caso di conflitto di coppia, il genitore biologico e legale rifiuti all’altro l’accesso alla genitorialità o che il genitore non biologico abbandoni le proprie responsabilità. I figli sono spesso, purtroppo, strumenti di vendetta e ricatto nei conflitti coniugali. Nel caso delle coppie dello stesso sesso la genitorialità non riconosciuta di uno/a dei/delle due offre agli adulti in conflitto un’arma impropria in più, senza alcuna possibilità di difesa, specie da parte dei figli che non possono rivendicare il diritto alla relazione con il genitore non riconosciuto.

I bambini – per altro molto piccoli – costretti a dividere il carcere con le loro mamme – sono un altro esempio di negazione dei diritti dell’infanzia in nome della colpevolezza dei genitori. In gioco qui non vi è la difesa i una qualche forma di famiglia, naturale o legale che sia, ma una estrema e paradossale identificazione del bambino con la madre, in base alla quale il bisogno di un bambino piccolo di star con la propria mamma, o l’assenza di figure familiari – il padre, nonni – in grado di prendersene cura viene rovesciata nel trasferimento al bambino della pena inflitta alla madre, senza considerazione dell’impatto negativo che ciò può avere sullo sviluppo emotivo, relazionale, cognitivo, linguistico del bambino il cui spazio fisico e relazioni sono così ristrette negli anni che sappiamo essere cruciali per lo sviluppo delle capacità. Chi lavora con questi bambini segnala disturbi nell’apprendimento, difficoltà a stabilire relazioni e a staccarsi dalla madre con la quale vivono in una relazione forzatamente simbiotica. La maggioranza di governo ha bloccato, con una serie di emendamenti peggiorativi anche alla situazione attuale, un disegno di legge che, in nome degli interessi dei bambini, mirava a consentire loro, a seguito del parere positivo di un magistrato, di poter vivere con le loro mamme in case famiglia protette, dove le loro mamme fossero sottoposte a sorveglianza e attività di ri-educazione, e loro potessero fruire di spazi liberi  e di avere relazioni normali con l’esterno.  Si sarebbe trattato di un forte miglioramento rispetto alla situazione attuale, ove l’unica alternativa al carcere sono gli ICAM, strutture carcerarie solo apparentemente più leggere, ma carceri a tutti gli effetti, con sbarre alle finestre e chiavistelli.

Va detto che le donne che si ritrovano in carcere con i loro figli sono per la maggior parte straniere: spesso sono rom condannate per furto, oppure donne legate alla tratta o al traffico di droga. Come spesso capita agli stranieri e ai poveri, inclusi i minorenni, non possono accedere alla detenzione domiciliare perché non hanno una abitazione ove stare e/o persone che possano garantire per loro. L’inserimento in case famiglia protette, con progetti ben strutturati di inserimento sociale, aiuterebbe queste donne a non rientrare per necessità in un circuito di emarginazione e i loro bambini a non essere destinati a percorrere la stessa strada.

 

Chiara Saraceno, Honorary Fellow Collegio Carlo Alberto, Torino