da il Manifestoinrete : La nuova rubrica “Il lavoro deve essere sicuro”, #1: Gli infortuni sul lavoro

Fonte ilmanifestoinrete 

Riprendiamo da ilmanifestoinrete il primo degli articoli della rubrica “Il lavoro deve essere sicuro” curata da Maurizio Mezzetti sulle problematiche del mondo del lavoro, degli infortuni, delle malattie professionali, sulla legislazione vigente in materia. Riteniamo importante socializzare questa iniziativa. Ringraziamo Maurizio Mezzetti per il suo impegno. editor

 

Con questo articolo, il manifesto in rete inaugura la nuova rubrica “Il lavoro deve essere sicurocurata da Maurizio Mazzetti* sulle problematiche connesse al mondo del lavoro, agli infortuni, le malattie e la legislazione vigente in merito. A partire da oggi, la rubrica uscirà la domenica a cadenza bisettimanale. Invitiamo le nostre lettrici e i nostri lettori a imbarcarsi con noi, verso questa nuova rotta nel mare dell’informazione, come sempre, in direzione ostinata e contraria.

Sui quotidiani dell’8 novembre leggiamo di tre morti sul lavoro, accaduti il giorno precedente una donna di 50 anni, alla vetreria di Borgonuovo, in Provincia di Piacenza, muore “accidentalmente incastrata e schiacciata tra un nastro trasportatore e un macchinario porta bancali”, come riporta l’ANSA, durante il turno notturno. Più o meno contemporaneamente, a Torino un operaio di 41 anni, straniero e dipendente da una Agenzia di somministrazione e operante presso una terza, muore schiacciato sotto dei tubi di metallo; a Casal di Principe un operaio di 49 anni durante il sopralluogo su un tetto precipita e muore per rottura del tetto stesso. Tre infortuni mortali, come vedremo, tipici, e non da oggi, nelle loro modalità di accadimento. Il neo Ministro del Lavoro annuncia che convocherà un apposito (ennesimo) tavolo; vedremo.

A tali eventi di solito segue uno sfoggio di retorica e di esibita indignazione,  sparso da politici di vario calibro, locali e no, giornalisti,  opinion makers o influencers, addetti ai lavori più pretesi che reali (quelli veri di solito tacciono e lavorano), e persino da qualche sindacalista: “le morti sul lavoro sono inaccettabili” (ma ben poca attenzione agli altri infortuni, e le malattie professionali restano sconosciute e neglette…),  “siamo vicini alle vittime, questa piaga è indegna di un paese civile, va eliminata, non si può uscire di casa per andare al lavoro per non tornarci, mai più …”, e via solennemente proclamando ed impegnandosi. Possono talvolta esservi estemporanee convocazioni, di consigli comunali su fino a qualche Presidente di Regione, e magari interrogazioni parlamentari. Ma il coro presto si spegne, per riprendere uguale al successivo evento mortale; ma, ahinoi, in tutte queste esternazioni, quel che manca è una qualche indicazione pratica sul come combatterlo, questo fenomeno.

Per farlo, complesso, multifattoriale, sfaccettato com’è, bisognerebbe prima conoscerlo; e visto il chiacchiericcio, di più spesso sbagliato, approssimativo, disinformato, che circola sul fenomeno, presuntuosamente in questo articolo proverò a chiarire cos’è un infortunio sul lavoro, darò e commenterò quel minimo di dati utili per misurare il fenomeno, e abbozzerò  una minima analisi delle cause. In successivi articoli parlerò poi prima delle malattie professionali, sempre trascurate e neglette ma non meno degne di attenzione, e infine poi mi azzarderò a ragionare sui rimedi, già attuati o possibili. Mi scuso in anticipo con eventuali addetti ai lavori che mi leggessero per semplificazioni, omissioni, qualche inevitabile imprecisione (indispensabile però a non appesantire troppo il testo), le tesi esposte senza citare/esporre compiutamente i dati sottostanti, e argomenti solo accennati senza approfondimento; perché diversamente si dovrebbe scrivere un volume, forse anche una collana.  capacità. Mi limito quindi a restare all’ABC.

In primo luogo, cosa si intende per infortunio sul lavoro?  Cercando di semplificare il linguaggio tecnico-giuridico, vediamo la definizione che ne dà il TU sulla relativa assicurazione obbligatoria, DPR 1124/1965. Infortunio è l’evento lesivo che avviene per causa violenta (= concentrata nel tempo) in occasione di lavoro (cioè legata allo svolgimento del lavoro), quando il lavoro presenta un rischio insito nel lavoro stesso; cioè che il lavoro origina il rischio di cui l’infortunio è una conseguenza (esempio, se uso uno arnese tagliente, rischio di tagliarmi). Le conseguenze? Come anche per le malattie professionali (anticipo quindi), se l’infortunio è riconosciuto come tale, la lesione comporta una inabilità temporanea assoluta al lavoro (specifica per quel tipo di lavoro), e/o danni permanenti di gravità variabile, indennizzati secondo un sistema a punti (franchigia fino a 5 punti), con erogazioni una tantum o costituzione di rendite vitalizie per danni permanenti dal 16% in su; nel caso di morte, gli indennizzi vanno agli eredi.

Quanto al rischio, esso viene usualmente definito come la probabilità di un evento dannoso moltiplicata per il danno, secondo la “classica” formula R = P x D; qualcuno ci aggiunge la diminuzione in base alle misure per eliminarlo, o ridurlo, o mitigarne le conseguenze, cioè R = (P x D) – M. Attenzione, rischio e pericolo, usati spesso anche sui media come sinonimi, sono concetti diversi: una sega circolare è pericolosa, ma se lavoriamo al computer in un ufficio il rischio legato alla sega è, ovviamente, nullo; ci saranno invece quelli di prendersi una scarica elettrica, di danneggiarsi la vista, di inciampare in un cavo elettrico, e via enumerando.

Al di là della ondivaga risonanza mediatica, quanto è esteso numericamente, e quanto è grave, il fenomeno degli infortuni? Normalmente se ne parla solo in termini di numerosità assoluta; in realtà si dovrebbe parlare di frequenza, e di gravità, concetti però non banali: i numeri assoluti di eventi hanno senso solo se confrontati con la platea dei lavoratori esposti e/o con analoghi numeri in altri periodi; quindi, conta la frequenza degli eventi sugli occupati, cosiddetto indice di frequenza; ma esistono modi di diversi di calcolare frequenza e numero di occupati stessa. L’entità delle conseguenze, siano esse temporanee, permanenti, mortali, costituisce l’indice di gravità, anch’essorapportato agli occupati e con analoghe diverse declinazioni.Si possono poi esaminare l’entità degli indennizzi/risarcimenti monetari pagati alle vittime, i costi per la singola azienda, quelli per la società nel suo insieme, globali e/o medi per singolo evento; infine, confrontarsi con altri paesi. In realtà, tutte queste cose insieme; e sul sito dell’INAIL qualunque interessato può trovare e scaricare sia i dati elementari, cd. open data, per successive elaborazioni autonome, sia una quantità impressionante di informazioni già elaborate. Ma non intendo neppure provarci: affermo però che un infortunio è SEMPRE evitabile; e anche un solo infortunio è prima moralmente inaccettabile, e poi, solo secondariamente, economicamente e socialmente dannoso, non esistono indici di frequenza e gravità “soddisfacenti”. E anche se l’obiettivo “infortuni zero” oggi suona piuttosto uno slogan, o un’utopia, ad esso una società che si vuole avanzata dovrebbe tendereE infine, se pure infortuni (e malattie professionali) continuano a verificarsi, come avviene nella realtà, bisogna prima mitigarne le conseguenze, poi curare, indennizzare, e nei casi gravi riabilitare, recuperare e reinserire nel tessuto sociale le vittime.

Riporto ora qualche dato sintetico sui infortuni e malattie professionali denunciati, ricavati quelli storici dal portale INAIL https://www.inail.it/cs/internet/attivita/dati-e-statistiche.html , e quelli più recenti Bollettini trimestrali INAIL (https://www.inail.it/cs/internet/comunicazione/pubblicazioni/bollettino-trimestrale-inail.html.

Doverosa precisazione: dati e statistiche INAIL si riferiscono ai soli eventi con assenza dal lavoro superiore a tre giorni, oltre a quello dell’infortunio, con o senza conseguenze permanenti, indennizzabili dall’INAIL come accennato sopra.  Non compaiono perciò gli infortuni di durata inferiore, cosiddette franchigie, non indennizzate, né tantomeno i cosiddetti near missess, cioè gli incidenti senza conseguenze sulle persone, ma solo sulle cose. Neppure compaiono quelli accaduti a lavoratori autonomi con partita IVA, numericamente rilevanti, o a quei pensionati che continuano a lavorare, fenomeno tipico in agricoltura. Sfuggono, ovviamente, gli infortuni ai lavoratori in nero, che emergono, se emergono, come malattie comuni; la loro incidenza è molto variabile da settore a settore, qualche stima ad opera delle organizzazioni sindacali arrivava a quantificare percentuali intorno al 15%. Infine i lavoratori autonomi, come gli artigiani e i coltivatori diretti, con una certa frequenza non denunciano l’infortunio, o ne “autoriducono” la durata, perché “hanno da fare”: “dottore, mi rimandi al lavoro”, come talvolta i sanitari INAIL si sentono dire dagli interessati con infortuni di leggera entità …. I dati disponibili, quindi sottostimano sicuramente il fenomeno, anche se è difficile dire di quanto.

I curiosi vedranno che nel 1951, primo anno per cui sono disponibili statistiche storiche, gli infortuni denunciati furono 728.788 di cui 3.511 mortali; poi i numeri crescono, per i mortali si raggiunge un picco nel 1963, con 4644 denunce, per gli altri infortuni nel 1970, con 1.601.061. Poi inizia un progressivo calo, con qualche aumento poi riassorbito; i mortali scendono sotto i 2000 dagli anni ‘80, poi stabilmente nella seconda metà degli anni ’90; dalla stessa data le altre denunce iniziano a scendere anch’esse verso il milione. Dal marzo 2000 (D. Lgs. 38/2000) iniziano ad essere considerati infortuni gli eventi in itinere, cioè nel tragitto casa lavoro o tra diversi luoghi di lavoro; quindi un nuovo rischio ed una nuova categoria di esposti. Nel 2008 abbiamo comunque ancora 964.798 denunce, di cui 1.145 mortali, nel 2016 sono rispettivamente 640.989 ma 1179, in crescita dunque, quelle mortali. I più attenti osserveranno, negli anni, anche il legame tra numero di infortuni e ciclo economico.

Per il 2017 e fino all’ultimo dato disponibile, settembre 2022, si veda sotto; si noterà come il COVID, con connesse limitazioni all’attività lavorativa in presenza ed agli spostamenti, ha fatto diminuire l’esposizione ai rischi preesistenti, con quindi meno denunce; ma che, come nuovo rischio, e rilevante, ha fatto crescere gli eventi mortali.

INFORTUNI DI CUI MORTALI MALATTIE PROFESSIONALI
DICEMBRE 2017 635.433 1.029 58.129
DICEMBRE 2018 641.261 1.133 59.585
DICEMBRE 2019 641.638 1.089 61.310
DICEMBRE 2020 554.340 1.270 45.023
DICEMBRE 2021 555.236 1.221 55.288
SETTEMBRE 2022 536.002 790 43.933
2022 PROIEZIONE ANNUA 714.669 1.053 58.577

Una lettura dei dati anche sommaria conferma che tutti i dati vanno maneggiati con cura, senza limitarsi agli slogan, quasi si fosse ancora all’anno zero (fortunatamente, no, anche se la strada è lunga). Ma la diminuzione non è un dono dal cielo, ma risultato anche del lavoro nella prevenzione di tante donne e uomini, e va rispettato. E senza dimenticare che dietro ogni freddo numero ci sono delle persone (Un morto è un morto, un milione di morti fanno una statistica, diceva Charlie Chaplin in uno dei suo film).

Oltre i numeri, chi si infortuna? Rinviando al sito INAIL per approfondimenti, si infortunano più gli uomini che le donne, in quanto gli uomini sono adibiti a attività in sé più rischiose; ma dove il rischio è il medesimo, tipicamente nella sanità, le percentuali si equalizzano. Dalle statistiche e dagli studi emerge che si infortunano maggiormente i lavoratori più giovani, per inesperienza, eccessiva confidenza, scarsa formazione (su questo si tornerà), e quelli più anziani, ancora una volta per eccessiva confidenza, accompagnata da una fisiologica diminuzione della prontezza di riflessi, dell’energia, dell’attenzione; e con il tendenziale allungamento dell’età pensionabile e l’effetto prolungato degli  stili di vita extra lavorativi che danno il loro contributo, come dalle più recenti acquisizioni della medicina del lavoro. Si infortunano maggiormente i lavoratori stranieri rispetto agli italiani, non solo perché impiegati per lo più in attività più rischiose (agricoltura, edilizia, logistica, siderurgia), ma anche quando il rischio è lo stesso che affrontano italiane e italiani. Ciò per una loro maggiore fragilità sul mercato del lavoro (una occupazione, quale che sia, è indispensabile per il permesso di soggiorno), per difficoltà linguistiche, talvolta per fattori culturali: i musulmani, ad esempio, come ho io stesso sperimentato in passato, sono spesso fatalisti, se qualcuno cade da un tetto non è per la mancata assicurazione alla linea vita, ma perché quello era il suo destino. Si infortunano di più i lavoratori somministrati (quelli detti in passato interinali), cioè “affittati” dalle Agenzia per il lavoro autorizzate, da cui dipendono, ad una impresa terza, presso la quale lavorano in “missioni”, come vengono chiamate, anche di pochi giorni; e ci si può immaginare con quale formazione e esperienza. Ci si infortuna, infine, maggiormente nelle prime o ultime ore di lavoro, o dopo la pausa pranzo, o durante i turni notturni, cioè in tutte quelle situazioni in cui l’attenzione cala e/o si fa sentire la fatica fisica e psichica.

Chiudo questo articolo con qualche spunto sulle cause del fenomeno; diciamo che un infortunio accade perché qualcosa è andato storto. Da studi e statistiche emerge che sempre più raramente l’evento è dovuto dalle macchine (malfunzionamenti, rotture, blocchi, esplosioni ecc.); se le regole d’uso sono rispettate, infatti, oggi macchine e impianti sono obbligatoriamente conformi alle norme UE (Direttiva Macchine, Regolamento macchine, in successive versioni dagli anni ’90 del secolo scorso), per come progettati e costruiti; il loro livello di sicurezza è molto elevato.

L’evento invece, nella stragrande maggioranza dei casi, si verifica perché qualcuna/o, l’infortunata/o stessa/o oppure altri, ha tenuto comportamenti sbagliati. Detti comportamenti possono essere commissivi o omissivi, contemporanei all’evento o precedenti; se successivi possono aggravarne le conseguenze, o innescare una catena di altri infortuni: esempio tipico sono gli infortuni nei cosiddetti ambienti confinati, quali silos, cantine, serbatoi, sotterranei, fogne, in cui per portare soccorso ad un primo infortunato, di solito da inalazione di sostanze tossiche o velenose, gli incauti soccorritori non adeguatamente formati/protetti subiscono la stessa sorte (spesso mortale).

Che significa però sbagliati? E ancora, sono sbagliati

  1. consapevolmente e volontariamente (per scelta, configurabili talvolta come veri e propri reati penali)
  2. consapevolmente e involontariamente (errori da disattenzione, stanchezza),
  3. inconsapevolmente e involontariamente (errori da ignoranza, imperizia, inesperienza, mancata formazione)

Sono sbagliati quei comportamenti che  violano delle regole di condotta, che possono essere giuridiche, tecniche, di buone prassi, di prudenza, di semplice buon senso: per fare qualche esempio, non indossare i DPI –  Dispositivi di protezione individuale, quali cuffie, elmetti, guanti, maschere, cinture si sicurezza, imbragature – fare manutenzione alle macchine senza fermarle, farla male, rendere insicuri gli ambienti di lavoro per possibili scivolamenti, suoli ingombri, caduta di oggetti dall’alto, rimuovere o inabilitare i dispositivi di sicurezza (si ricorderà il caso di Luana, apprendista ventiduenne morta per questo motivo lo scorso anno in un laboratorio tessile); e ancora non valutare tutti i rischi, non fare/ricevere, formazione ed addestramento, non utilizzare le segnalazioni di pericolo, usare sostanze proibite o senza adeguate protezioni

Per aiutare l’analisi di queste violazioni, nonché dell’intero fenomeno infortunistico secondo modalità standardizzate, l’Unione Europea, Agenzia per la Sicurezza sul lavoro con sede a Bilbao in Spagna, dal 2001 ha messo a punto l’approfondito e particolareggiato sistema ESAW 3. In esso, quanto è andato storto, il comportamento sbagliato umano o il malfunzionamento di una macchina viene definito come “Deviazione”.

Il manuale ESAW così la descrive “L’ultimo evento, deviante rispetto alla norma, che ha portato all’infortunio. Rappresenta la descrizione di un evento anormale, ovvero la deviazione dal normale tipo di lavoro. La deviazione è l’evento che provoca l’infortunio”.

Il concetto di deviazione rappresenta certo un utile strumento per accertare le cause del singolo infortunio e auspicabilmente impedirne il ripetersi: ma non spiega le ragioni ultime del comportamento deviante, come gli studi più recenti fanno notare, ragioni che sono le reali cause dell’infortunio. Per tornare agli esempi fatti sopra, il mancato uso dei DPI avviene perché mancano, sono scomodi da usare, non sono efficaci, non si sa usarli, non si vuole/può usarli perché rallentano il lavoro? La manutenzione su una macchina in lasciata in movimento, o quella incompleta o malfatta, avviene per incoscienza, eccessiva fiducia nelle proprie capacità, imprudenza, mancata/insufficiente formazione e addestramento, o perché la produzione non può rallentare, su spinta del datore di lavoro o se la lavorazione è a cottimo? L’ambiente di lavoro è lasciato insicuro per trascuratezza, ignoranza, o esigenza di risparmiare tempo e risorse economiche? E lo stesso dicasi per gli altri comportamenti errati menzionati, ad eccezione della volontaria rimozione/inabilitazione di dispositivi di sicurezza, che difficilmente può ascriversi a cause diverse da quelle di sfruttare al massimo la macchina ed il tempo di lavoro di chi vi è adibito.

L’odierna struttura economica del capitalismo globalizzato e finanziarizzato, in cui le imprese competono tra loro su costi, tempi, produttività, in un mondo fatto di filiere lunghe, esternalizzazioni, delocalizzazioni, frammentazione delle unità produttive, precarizzazione dei rapporti di lavoro, separazione tra proprietà e management, mantiene come obiettivo il massimo profitto raggiungibile nelle condizioni date (e spesso, nel breve periodo). Ma ciò incentiva, oggettivamente, tutti quei comportamenti che, pur “sbagliati” nel senso detto sopra, fanno, o si ritiene facciano, risparmiare tempi e costi alle imprese, aumentandone la produttività (da maggior sfruttamento della forza lavoro, qui) ed i margini di profitto.

Non tutte le imprese si comportano malamente, anzi, e per fortuna e per loro merito; anzi forse sono semplicemente più lungimiranti. Le aziende che risparmiano su sicurezza e prevenzione non risparmiano, in realtà, credono solo di farlo; perché i costi della non sicurezza sono maggiori rispetto ai necessari investimenti in sicurezza anche per l’azienda, e sono, più correttamente, da considerare piuttosto investimenti, e con ottimi ROE e ROI (ritorno sull’investimento); ci si tornerà sopra. Sul resto, ci aggiorniamo, e grazie a quei pochi che hanno avuto la pazienza di leggermi sin qui.

*Maurizio Mazzetti, laureato in giurisprudenza e specializzato in Relazioni Industriali e del Lavoro, è stato dirigente INAIL dall 1999 al 2021. Con Costantino Cipolla e Lamberto Veneri ha curato il volume “Sicurezza e salute sul lavoro. Quale cultura e quale prassi?” (Franco Angeli, 2015).

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