Morire di lavoro. Seconda parte

Fonte: Saluteinternazionale.info che ringraziamo

Autore: Giuseppe Leocata

Per chi si occupa a vario titolo di salute dei lavoratori è giunta l’ora di uscire dai propri orticelli e dal coltivare interessi autoreferenziali o di parrocchia e basati su logiche mercantili.

Oggi si registra sempre di più la debolezza dei diversi nodi della rete della prevenzione, della salute e della sicurezza sul lavoro e all’assottigliamento delle relative maglie nell’ambito della Sanità: i Lavoratori – italiani, migranti, riders, ecc. (i quali oggi più di ieri hanno la priorità di conservare a qualunque costo il posto di lavoro e il salario, ‘prioritari’ rispetto alla loro salute globale nei luoghi di lavoro – si pensi soltanto ad esempio alle divergenze sulla lettura del disastro per la salute dei lavoratori e degli abitanti del quartiere Tamburi a causa dell’ILVA di Taranto), il Sindacato (in forti difficoltà e che non riesce più ad incidere nel mondo della sicurezza e dell’igiene del lavoro come negli anni passati, pensiamo ad esempio al silenzio in merito alle fabbriche di morte – armi, mine, ecc.), le Imprese virtuose (le quali andrebbero valorizzate), le Unità Operative Ospedaliere di Medicina del Lavoro (sempre più ridotte e ‘non in linea’ con la ‘mission’ delle aziende ospedaliere: ‘curare i malati’), le Cliniche Universitarie (con risorse sempre di più ridotte e che sembra abbiano perso il contatto reale con la realtà concreta del lavoro e con le persone – lavoratori, operatori, servizi territoriali e istituzioni). In modo nostalgico ma realista ricordo il “modello di strutturazione territoriale integrata dei Servizi di Medicina Preventiva del Lavoro”, promosso – fra gli altri – da Antonio Fanuzzi della Regione Lombardia[1].

I medici competenti sono spesso costretti a operare come meri esecutori di norme giuridiche stabilite da altri e non come figure umane e professionali di riferimento per il lavoratore (questi possono avere maggiori e regolari contatti con questa figura piuttosto che con il proprio medico curante); la loro medicina del lavoro dovrebbe seguire un suo percorso globale e in autonomia, non subordinato a figure tecniche (medici competenti sottoposti a Responsabili Servizi Protezione e Prevenzione o a Risk Manager) né imbrigliato in gare al ribasso per la sorveglianza sanitaria e va inserita in un ‘sistema sociale più organico’ rispettoso della loro professionalità, a tutela dei lavoratori e delle imprese, in relazione alle norme e al buon senso. In un sistema sanitario di imperante privatizzazione, risulta difficile pensare a delle vie di uscita per risalire la china e per garantire a tutti una sanità equa e la tutela della salute per tutti, anche nella medicina del lavoro. La Politica non c’è e non sembra essere questa l’ottica del Governo, che ha ben altro da inseguire al momento e non sembra neanche nei pensieri delle figure che operano nel settore.

Nell’ambito istituzionale e nelle diverse associazioni interessate è giunta l’ora di uscire dai propri orticelli e dal coltivare interessi più o meno ‘autoreferenziali’ o di ‘parrocchia’ e basati su ‘logiche mercantili’. La Società Nazionale Operatori Prevenzione (SNOP), quella che raccoglieva gli operatori dei Servizi di vigilanza – medici e tecnici della prevenzione – è da tempo in sordina; l’Associazione Nazionale Medici d’Azienda organizza attività di un certo interesse operativo per i medici competenti, la Società Italiana di Medicina del Lavoro (SIML) è sempre più concentrata sulle figure universitarie e sembra insidiata dalla Società italiana di Igiene Medicina Preventiva e Sanità Pubblica (SItI), forse per riappropriarsi della medicina del lavoro, coprendo postazioni importanti di medico competente con medici igienisti (del resto era già ben previsto da art.1  bis del D.L.402 2001!).Un passo importante potrebbe essere quello di revocare l’autonomia delle Regioni sulla Sanità (modificare il famoso Titolo V della Costituzione) e ricentralizzare anche l’Igiene e la sicurezza sul lavoro, mettendo ad un unico tavolo centrale e con articolazioni periferiche: INAIL, Direzione Generale del Lavoro, Ministero della Salute. Questi si dovrebbero confrontare, dopo avere definito le linee culturali e politiche della tematica, con le associazioni imprenditoriali, sindacali, dei medici del lavoro e delle figure tecniche della prevenzione, per condividere la linea e per eventuali adeguamenti. Questo percorso potrebbe essere cruciale per evitare inutili sovrapposizioni di interventi e di azioni (soltanto ad esempio dal punto di vista ispettivo e dei corsi di formazione da affrontare in modo unitario e congiunto).

Ai sindacati spetta nuovamente il compito di ricostruire una nuova cultura del lavoro in una società 4.0 e di occuparsi anche realmente della tutela e della formazione dei lavoratori in materia sindacale e di Igiene e sicurezza del lavoroLe Università devono tornare a confrontarsi in modo reale e paritetico con il territorio e fare ricerca non su ‘campioni’ ma sulla ‘salute vera’ dei lavoratori (quella della soggettività) con lo strumento di una scienza condivisa e devono fare condurre gli specializzandi nelle aziende per fare loro conoscere il mondo del lavoro, e non solo come visitare i lavoratori o effettuare degli accertamenti strumentali e di laboratorio[2].

Nell’ultimo congresso della Società Italiana di Medicina del Lavoro (Parma – settembre 2021) è stato dichiarato che 13 milioni di italiani sono seguiti da medici competenti aziendali, questo numero è inferiore soltanto a quello delle persone seguite dai medici di medicina generale; soltanto che il numero di questi ultimi è 10 volte superiore a quello dei medici del lavoro e non c’è una rete di rapporti tra medici del lavoro, medici di medicina generale, medici ospedalieri, medici del territorio e medici universitari. Si è persa la definizione dei livelli di intervento, forse sarebbe corretto tornare al modello sopra descritto:  primo, secondo e terzo livello e ognuno agisca nel suo ambito e faccia bene il proprio lavoro, il medico competente sia più una figura gestionale (consulente globale) e non ‘manovale del visitificio’, l’igiene e la sicurezza del lavoro e la prevenzione sono ben altro, i medici delle Unità Operative Ospedaliere di Medicina del Lavoro con professionisti di altre discipline come supporto potrebbero fornire il supporto ai medici competenti e gli universitari fare ricerca e non garantire la sopravvivenza delle strutture con attività di mero ‘visitificio’ molto remunerative ma non preventive né di ricerca!

Le imprese, dal canto loro, ormai cercano pacchetti di protocolli sanitari preconfezionati standard e al prezzo più basso (è questa la medicina del lavoro che vogliamo sopravviva e che insegniamo ai giovani medici del lavoro?); quella di efficienti Unità Operative Ospedaliere di Medicina del Lavoro pubbliche potrebbe essere una soluzione alternativa, se ben costruite e con a capo persone lungimiranti e formate non al mero comando (potere fine a se stesso) ma con una visione di sistema realmente indirizzata alla efficacia ed efficienza di interventi mirati e più possibile semplificati. Non si può pensare oggi, in un clima politico e sociale fragile, a medici competenti con un rapporto di convenzione con il sistema pubblico, come i medici di medicina generale, né a inserirli facilmente in strutture territoriali come le costituende ‘Case della Salute’ della Lombardia.

Non è, inoltre, realistico pensare ad un nuovo percorso culturale per il medico competente; è stata avanzata l’ipotesi di un master universitario sulla valutazione dei rischi, senza prender in considerazione la possibilità di utilizzo più funzionale e culturalmente corretto di quanto già esiste, si vogliono forse creare altri corsi, altre sedi e dare incarichi ad altri docenti… Mi azzarderei a dire che la clinica specialistica è la fine della medicina del lavoro, quella che dovrebbe tutelare la salute dei lavoratori; lasciamo agli specialisti la gestione delle discipline specialistiche e torniamo a fare i medici del lavoro, agendo ‘oltre la norma’ e liberando il tempo del medico competente dalle visite, direi: no alla medicalizzazione ad ogni costo, no alla tecnicizzazione e no alla digitalizzazione della salute e della sicurezza sul lavoro, non credo al potere taumaturgico del ‘dottor internet’! Cerchiamo di riflettere seriamente e ad operare per ricostruire la Medicina delle ‘4 P’ (Predittiva Preventiva Personalizzata Partecipativa).

Chiudo con una affermazione di Ken Loach, che in relazione al suo film “I, Daniel Blake” di Ken Loach, ci ha trasmesso sia una riflessione spietata su un mondo sempre più cinico, distratto e inutile, sia una fiducia assoluta negli esseri umani: “Dov’è la speranza? Penso che sia nella rabbia, in una rabbia costruttiva che potrebbe trasformarsi in un movimento… Un altro mondo è possibile e necessario.

La prima parte del post è stata pubblicata lo scorso lunedì 18 ottobre.

Giuseppe Leocata – medico del lavoro

Un grazie a Franco Carnevale per la collaborazione editoriale

Bibliografia

  1. Francesco Riccardi. Lavoratori da tutelare. Sicurezza, oltre l’emozione per Luana e gli altri 185 morti. L’Avvenire, 05.05.2021
  2. La tragedia del lago – Il racconto – Anatomia di un disastro / Dietro i fatti di Stresa un atteggiamento che ha molti precedenti: la percezione delle regole come un limite esagerato frutto di una paranoia burocratica di cui possiamo fare a meno – Carlo Lucarelli – La Stampa, Primo piano, 28.05.2021  “Lucarelli cita uno studio pubblicato dalla rivista “Medicina del Lavoro” del 1972 su un ‘campione’ di operai che lavorano a contatto con l’amianto in un cantiere della Liguria. (‘campione’, parola non bella per un gruppo di persone ma è un termine tecnico e andrebbe bene, se non fosse così in linea con un modo inquietante di concepire il lavoro). “Alla fine, lo studio dà un consiglio alle fabbriche che lavorano l’amianto. Quello di utilizzare soltanto operai che abbiano più di 40 anni, perché dal momento che i tumori da amianto ci mettono un po’ di tempo prima di manifestarsi, è probabile che i lavoratori siano già morti prima ancora di ammalarsi”.