Medicina di genere non è medicina delle donne.

Fonte Rivista Micron 

Autrice : IRENE SCIURPA

Il corpo dell’uomo è stato sempre considerato il corpo umano per eccellenza e la donna una sua variazione. Un pregiudizio, specialmente in ambito medico, ancora oggi duro a morire. Ma perché? E con quali conseguenze per la salute delle donne? Ne abbiamo parlato con gli esponenti di due importanti centri di ricerca a livello mondiale impegnati su questo fronte.

Per secoli, partendo da Aristotele, si è considerata la donna come una versione in scala ridotta, o peggio, mutilata, dell’uomo. Le ovaie sono state chiamate “testicoli femminili” fino al XVII secolo e stessa sorte è toccata anche all’utero, chiamato invece “scroto femminile”.

Il corpo dell’uomo è stato considerato il corpo umano per eccellenza e la donna una sua variazione e questo pregiudizio, specialmente in ambito medico, è duro a morire.

Uno studio del 2008 pubblicato su ScienceDaily mostra come negli atlanti medici, raccomandati da alcune prestigiose università europee canadesi e americane, su un totale di 16.329 immagini analizzate il corpo maschile, rispetto a quello femminile, veniva utilizzato tre volte più spesso quando si parlava di parti neutre (come un braccio o una gamba) prolungando questo male-bias anche nei medici di domani. Ancora oggi, se ci capita di sfogliare un libro di medicina possiamo notare che le cose non sono cambiate di molto, come ha sottolineato la giornalista del The Guardian Caroline Criado Perez dopo giornate passate nella sezione di medicina di una libreria a Londra.

Gli ultimi 20 anni di studi hanno invece largamente dimostrato che le donne non sono “uomini più piccoli” ma il corpo maschile e quello femminile si differenziano sin dal livello cellulare (Pollitzer, 2013). Le differenze di genere in campo medico (e con genere va inteso non solo le variabili biologiche ma anche ambientali, culturali e socio-economiche che derivano dal sesso biologico) possono essere sostanziali per la salute.

Nonostante ciò le donne sono state, e continuano a essere, largamente escluse dai trials per nuovi farmaci e nuove cure, perpetuando la mancanza di dati anche sulle sintomatologie differenti tra i due sessi.

Per non parlare della sotto-rappresentazione delle donne in stato di gravidanza, vittime di uno dei più grandi scandali sanitari del secolo scorso, quello della talidomide. Negli anni cinquanta del Novecento, per la precisione nel 1957, fu introdotto sul mercato un farmaco ritenuto sicuro, infatti nelle fasi di studio clinico “non aveva nemmeno ucciso un topo”: appunto, la talidomide. Un farmaco a basso rischio, prescritto in grande misura nelle donne in gravidanza per combattere la nausea mattutina. Ma questo farmaco non era mai stato testato su animali gravidi. Prima che il farmaco venisse ritirato dal mercato, nel 1962, più di diecimila bambini erano nati con gravi malformazioni degli arti. La FDA (Food, Drug Ammidistration), invece di promuovere lo studio di farmaci per le donne in gravidanza e in età fertile ha deciso di escluderle del tutto, per la “protezione” della loro salute.

Come sottolinea la direttrice dell’European Istitute of Women Health, Peggy Maguire, «dalla tragedia della talidomide c’è stata una riluttanza a includere le donne in età fertile negli studi clinici» perpetuando in questo modo quell’idea malsana che i farmaci testati in prevalenza sugli uomini andassero bene, in fondo, anche per donne.

Sin dagli anni Settanta la comunità internazionale ha però iniziato a riflettere sul fatto che la medicina per troppo tempo si sia basata sull’errata convinzione che, a parte i diversi apparati riproduttivi, donne e uomini fossero equivalenti. Insieme alle lotte per l’emancipazione femminile il tema della medicina di genere ha fatto il suo ingresso nell’arena pubblica, provando ad accendere i riflettori sul peso delle disuguaglianze anche in campo medico.

Nel 2018 l’Italia, sulla scia dei nuovi regolamenti approvati nel 2014 dell’Unione Europea, ha promosso un piano per l’applicazione della medicina di genere. Nel documento si legge: «La risposta alle terapie, in ambito di differenze di genere, riveste un’importanza rilevante. Nonostante queste variabili, gli effetti dei farmaci sono stati studiati prevalentemente su soggetti di sesso maschile e il dosaggio nella sperimentazione clinica è definito su un uomo del peso di 70kg». Ed è necessario aggiungere che le donne sono le maggiori consumatrici di farmaci, farmaci che non sono stati sperimentati su di loro, che causano effetti collaterali più forti dati dall’iperdosaggio e che molte volte non funzionano affatto, come mostra uno studio del 2014 dell’FDA.

Cosa significa tutto questo per la salute delle donne? Per trovare una risposta a questa complessa domanda, ne abbiamo discusso con l’European Istitute of Women Health (EIWH) con sede a Dublino e con la Society for Women Health Reserch (SWHR) con sede a Washington, due dei primi centri di ricerca a livello mondiale impegnati per la protezione della salute delle donne.

Entrambi i centri sono organizzazioni no-profit dedicate alla promozione della ricerca basata sulle differenze tra i sessi in campo medico e al miglioramento della salute delle donne attraverso la scienza, la politica e l’istruzione. Tramite incontri e riunioni tra esperti, medici, attivisti e istituzioni si impegnano quotidianamente per inserire la dimensione del genere nell’agenda della salute, della ricerca e nella sperimentazione nazionale e internazionale.

La Society for Women Health Reserch è stata fondata trenta anni fa da un gruppo di scienziate e scienziati, attivisti e attiviste americani per combattere contro l’esclusione delle donne e delle minoranze dalle sperimentazioni cliniche: «Grazie all’impegno della SWHR, le donne sono ora normalmente incluse nella maggior parte degli studi di ricerca medica negli Stati Uniti” sottolinea Emily Ortman, responsabile della comunicazione di SWHR.

Invece l’EIWH è stato fondato nel 1996, dopo una conferenza a Dublino, a cui hanno partecipato operatori sanitari, politici e membri del Parlamento europeo, indetta per denunciare l’assenza nell’agenda politica dei temi connessi alla medicina di genere. Nei primi anni Novanta, come evidenzia la direttrice dell’EIWH, “il carcinoma mammario era il cancro che più di tutti uccideva le donne. Le malattie cardiovascolari erano considerate una questione maschile e non si parlava affatto della presenza di queste malattie in relazione all’altro sesso”. L’attenzione riguardo all’impatto che il sesso biologico e il genere hanno sulla salute era ai suoi inizi.

È necessario parlare di “salute delle donne” proprio perché nel corso degli anni, come ci spiega Peggy Maguire, «le conoscenze scientifiche hanno dimostrato sempre di più che alcuni trattamenti influenzano in modo diverso uomini e donne. Tuttavia, la percentuale di farmaci per i quali vi è una risposta diversa tra i due sessi rimane ancora sconosciuta. Ricerche recenti sulle malattie cardiovascolari, sull’osteoporosi, sull’Alzheimer e sulla depressione hanno identificato differenze significative tra donne e uomini rispetto alla comparsa e al decorso di queste malattie. Il rischio legato allo sviluppo di determinate condizioni patologiche è diverso così come la risposta del corpo allo stesso trattamento; le differenze biologiche possono influire sul funzionamento di un medicinale».

Ma i medicinali diventano più sicuri ed efficaci per tutti solo quando la ricerca clinica comprende diversi gruppi di popolazione. Invece le donne sono state sistematicamente escluse dai trial in campo medico. Una delle motivazioni di questa “svista” ce la espone Emily Ortman: «Questo è avvenuto anche perché i ricercatori hanno ritenuto che i cicli ormonali femminili fossero troppo difficili da gestire negli esperimenti e che l’uso di un solo sesso avrebbe ridotto la variazione dei loro risultati».

Un corpo, insomma, troppo complesso e non abbastanza “scientifico” quello delle donne, ma proprio per questa visione antropocentrica della medicina oggi la salute delle donne e il loro corpo con “troppi” ormoni è a rischio. Il perché ce lo spiega sempre la responsabile della comunicazione della SWHR: «Le malattie cardiache, per esempio, sono spesso considerate una malattia caratteristica dell’uomo, ma in realtà sono la prima causa di morte delle donne negli Stati Uniti. Molte donne non sperimentano i sintomi classici dell’infarto, quelli che si studiano sul libro di testo. La mancanza di studi specifici porta ad un aumento delle diagnosi errate nelle donne e la conseguente assenza di cure adeguate. Per migliorare i risultati sanitari per tutti, dobbiamo capire meglio come le differenze biologiche e socioculturali tra donne e uomini influenzano la salute. Ma questo non possiamo farlo se le donne non sono incluse in tutte le fasi del processo di ricerca».

Eppure, se si guardano ai dati sulla longevità della popolazione mondiale, ci si accorge che le donne vivono in generale più a lungo rispetto agli uomini. Per molti questo è un dato capace di dimostrare per sé stesso che non siamo di fronte a nessuna emergenza, anzi. In realtà questo dato, di per sé positivo, non dovrebbe farci sentire sollevati in quanto, come spiegano le due studiose, anche se l’aspettativa di vita delle donne sia più lunga (in Europa è sopra i 5 anni) l’aspettativa di una vita sana è inferiore a quella degli uomini.

Le donne, infatti, vengono colpite da più malattie nel corso della loro esistenza. Una vita più lunga insomma, ma da malate. Per questo le donne meritano studi e trattamenti adeguati che consentano loro di vivere in buona salute.

Questo è dato non solo da farmaci che non funzionano e da terapie inadeguate; sono molti i fattori, tra cui lo stato socioeconomico, l’istruzione e la cultura, che determinano l’accesso alle risorse. Bisogna tenere in considerazione che le donne hanno una retribuzione inferiore, spesso data da occupazioni meno sicure e più informali. In Europa le donne guadagnano il 16% in meno e ricevono pensioni inferiori del 40% rispetto agli uomini: questi determinanti sociali hanno grandi ripercussioni sulla salute e l’accesso all’assistenza sanitaria.

Come spiega la direttrice dell’EIWH «I sistemi sanitari dovrebbero essere altamente sensibili alle esigenze delle donne, ma troppo spesso falliscono. Ridurre le disuguaglianze sanitarie non è solo la cosa giusta da fare, ma è anche economicamente prudente. Entro il 2050, il PIL nell’UE aumenterebbe del 6-10% se si migliorasse l’uguaglianza di genere. Le politiche di genere hanno dimostrato di avere un impatto maggiore sulla crescita del PIL rispetto alle politiche del mercato del lavoro e dell’istruzione. Le disuguaglianze sanitarie comportano una perdita economica di circa 980 miliardi di euro all’anno nell’UE». Una domanda sorge spontanea da questa panoramica: cosa stiamo aspettando?

Il 2020 non sarà, però, l’anno di svolta: purtroppo la salute del genere femminile è ancora più a rischio per l’epidemia mondiale di coronavirus. Come evidenzia Emily Ortman «sebbene gli uomini stiano morendo a tassi più alti rispetto alle donne per il coronavirus, le donne si trovano ad affrontare oneri della pandemia che danneggiano la loro salute fisica, mentale, emotiva e sociale.

Le donne hanno maggiori probabilità di essere caregiver per parenti e bambini malati e il carico di questo lavoro è aumentato significativamente durante la pandemia, creando enorme stress per loro». Le donne e le loro famiglie sono colpite in modo sproporzionato dalle conseguenze pandemiche e dagli effetti a lungo termine, che potrebbero aggravare le disuguaglianze di genere già esistenti. La quarantena, la chiusura della scuola e altre risposte date dai governi per contrastare la pandemia, risposte che poco tengono conto delle disparità tra i generi, avranno un impatto sulle donne da un punto di vista fisico, finanziario ed emotivo. Le perdite di posti di lavoro stanno colpendo gravemente le lavoratrici: solo in Italia sono state 37 mila le donne con figli ad abbandonare il proprio posto di lavoro e questo avrà un riscontro negativo sulla loro salute. Inoltre, come rimarca Peggy Maguire, «Le donne di tutta Europa sono state in prima linea durante questa emergenza sanitaria. Sono loro che lavorano nel campo della cura, sia informale che formale. Le donne rappresentano anche il 76% degli operatori sanitari, il che aumenta la loro esposizione al virus. Addizionalmente sono moltissime le donne presenti nei “lavori essenziali”, come ad esempio nei negozi di alimentari; l’82% delle cassiere in Europa sono donne. Ed è anche a rischio il benessere psicologico delle donne e la loro liberà di scelta: circa 9,8 milioni di donne in tutto il mondo incontrerà difficoltà nell’accesso ai contraccettivi e all’IGV, le stime infatti parlano di 7 milioni di gravidanze non pianificate a causa del coronavirus. Le Nazioni Unite hanno riferito anche di un aumento della violenza domestica, che colpisce in particolare donne e bambini, a seguito della quarantena. A livello globale, 31 milioni di episodi di violenza di genere saranno connessi direttamente alla crisi».

Soprattutto durante una pandemia, raccogliere i dati su tutta la popolazione diventa fondamentale, e questa volta dobbiamo fare in modo che non si commettano gli stessi errori fatti durante l’epidemia di Sars del 2002-4, dove pochissimi dati sugli effetti clinici del virus sulle donne, e in particolare sulle donne in cinta, sono stati raccolti. La direttrice ci spiega perché le analisi di genere durante un’emergenza sanitaria sono importanti: «servono per comprendere la natura dei focolai e per programmare risposte efficaci ed eque anche sul tema della salute pubblica. Pertanto, i dati su sesso, genere ed età devono essere raccolti e tenuti in considerazione nella risposta politica e sanitaria alla pandemia. Una raccolta di dati rigorosa e approfondita è essenziale per trarre conclusioni accurate e quindi garantire una salute per tutti. L’Europa deve garantire un finanziamento sufficiente per la ricerca e per l’innovazione anche sui vaccini, i trattamenti e le cure, in modo da proteggere, non solo i pazienti con coronavirus, ma la società intera».

Per millenni la medicina si è basata sulla convinzione che il corpo degli uomini potesse rappresentare l’umanità, come conseguenza di questo pregiudizio siamo di fronte a una mancanza di conoscenza medica sul corpo delle donne. Ancora oggi le donne continuano ad essere escluse dalle sperimentazioni, oppure, quando vengono incluse, i dati dei trials non vengono disgregati in base al sesso: le donne scompaiono. Questa dovrebbe essere una questione presente nel dibattito pubblico, una questione letteralmente di vita e di morte per troppe donne ancora nel 21 secolo.

Non c’è più tempo: la ricerca sulla salute delle donne deve essere una priorità. Per Emily Ortman è necessario «incentivare la ricerca che affronta le esigenze di salute peculiari delle donne e dobbiamo investire negli ambiti in cui sono presenti lacune conoscitive per soddisfare loro bisogni. Le istituzioni e i ricercatori devono dare priorità all’eliminazione delle disparità di genere nel campo medico». È bene sottolineare che questa non è solo una questione di benessere fisico e mentale, è una questione etica di giustizia sociale: un passo necessario per rompere questo maledetto soffitto di cristallo e garantire alle donne una vita sana.