
di Leopoldo Magelli, medico del lavoro,
Perché parlare di sicurezza e salute sul lavoro nell’ottantesimo Anniversario della Liberazione
Parlare della sicurezza e salute sul lavoro (o meglio: di come si disattendono
entrambe le cose) a 80 anni dalla Liberazione, significa anzitutto evidenziare come le
morti per infortuni e malattie professionali riescono a disattendere (come poche altre
cose) contemporaneamente più articoli della nostra Costituzione. Quindi parlerò
degli infortuni mortali sul lavoro e delle malattie professionali guardandoli attraverso
la lente della nostra Costituzione, perché tali fatti costituiscono un continuo sfregio
ai suoi contenuti.
Non parlerò tanto dei numeri, certamente importanti per avere un’idea quantitativa
della dimensione del fenomeno e seguirne l’evoluzione nel tempo, quanto dei fattori
che li determinano e delle persone che ne sono più colpite. Però qualche numero va
dato: in questi ultimi anni i morti “ufficiali” sul lavoro per infortuni si aggirano intorno
ai 1.100-1.200 all’anno, per malattia un numero simile, in alcuni anni ancora di più
(e qui pesano molto i morti per mesotelioma da amianto, legati però ad esposizioni
avvenute decine di anni or sono). Ho usato il termine “ufficiali” perché queste sono le
cifre fornite all’Istituto assicuratore Inail; quindi, mancano i non assicurati e i morti
“in nero”, cioè vittime di infortuni sul lavoro mai denunciati.
Chi sono le persone che si infortunano sul lavoro, di cui ben più di un migliaio muore
ogni anno? E non le chiamo morti bianche, perché queste parole evocano qualcosa di
asettico e di pulito, mentre i morti per infortuni del lavoro sono schiacciati, bruciati,
polifratturati, soffocati, annegati, straziati: cosa c’è di bianco? Come era scontato
immaginare, non sono le fasce forti della società: ad esempio i lavoratori precari
hanno un rischio di infortunio doppio rispetto a quelli più stabilizzati, i lavoratori
stranieri hanno un rischio di infortunio più elevato degli italiani, ben più di metà degli
infortuni gravi e mortali è dovuta a cause connesse con l’organizzazione del lavoro e
questa percentuale è anche maggiore negli infortuni plurimi (ricordiamo Brandizzo,
Suviana, Firenze, Casteldaccia, Calenzano, solo per limitarci agli ultimi due anni); tra
i settori più colpiti ovviamente l’edilizia, ma anche i servizi (es. logistica), i trasporti,
l’agricoltura, il chimico, il metalmeccanico. E una quota altissima di infortuni avviene
in regime di appalto e subappalto (fino al 70% nell’edilizia).
Quando si racconta un infortunio si racconta dove è successo, quando, chi è la
vittima, che lesioni ha riportato, come è successo: il “come” riguarda le modalità con
cui è avvenuto l’infortunio, la sua dinamica e meccanica, ma il perché l’infortunio
è accaduto è un’altra cosa e ci porta su un terreno completamente diverso. Infatti, a
monte del singolo caso c’è sempre un problema di contesto generale (che spiega anche
perché, pur con il continuo progresso tecnologico, il fenomeno sembra non schiodarsi
dai valori numerici sopra ricordati).
La sicurezza sul lavoro è un problema sistemico e strutturale: come può la
prevenzione nei luoghi di lavoro funzionare in un contesto come quello italiano attuale,
caratterizzato da tre pilastri: la ricerca – pure in sé legittima, se non diventa la sola
variabile indipendente – del profitto (che è rimasto, pur con alcune lodevoli eccezioni,
come unico o principale valore di riferimento per le scelte personali, imprenditoriali e
politiche), l’illegalità diffusa e pervasiva, la negazione dei diritti?
Perché dovrebbe “reggere” e magari svilupparsi la prevenzione, che ha dei costi
immediati, privati e pubblici, anche se a lungo termine paga, visti i costi non solo
umani e sociali, ma anche economici, della mancata prevenzione (dai risultati dei
lavori di una commissione d’inchiesta del Senato di qualche anno fa è emerso che il
costo dell’insicurezza nelle fabbriche e nei cantieri è stimato valga tra il 3,4 e il 6%
del Pil: anche se ci attestiamo sul livello più basso della forbice, il 3,4% del Pil, ci
rendiamo conto dell’impatto economico)? E che presuppone la legalità, che tutela dei
diritti?
Il problema è per l’appunto sistemico e non ha senso pensare di poterlo risolvere con
interventi parziali o estemporanei, che possono comunque (e già non sarebbe poco)
contribuire alla “riduzione del danno”. Tra l’altro, nel sentire comune e nell’opinione
corrente (a parte l’indignazione lacrimosa quando sono colpite giovani donne con figli
piccoli, oppure 5 lavoratori in un colpo solo, e in modo particolarmente brutale) non
c’è biasimo sociale e disprezzo per chi, non rispettando le norme e non garantendo la
sicurezza, mette a repentaglio la vita o la salute dei lavoratori.
Torniamo a quello che dicevo in apertura su come leggere il problema dei morti sul
lavoro alla luce del dettato costituzionale. A parte i principi fondamentali, l’art. 2 sui
diritti inviolabili e l’art. 4 sul diritto al lavoro, sono soprattutto alcuni articoli specifici
del titolo II e III ad essere disattesi:- l’art. 32: ”La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo
e interesse della collettività[…]”; – l’art. 35: “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.
Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori. Promuove e favorisce
gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti
del lavoro”;
- l’art. 41: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto
con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza,
alla libertà, alla dignità umana”.
Ogni morto sul lavoro costituisce un clamoroso sfregio a queste tutele. Qualcuno
potrebbe pensare che il mio approccio al problema degli infortuni mortali sia troppo
ideologico e prevenuto nei confronti del mondo datoriale. Allora, scendiamo dalle
idee ai fatti, e prendiamo in esame due casi apparentemente molto diversi, verificatisi
entrambi recentemente in Toscana, nella zona di Prato: in una piccola azienda tessile
la morte di Luana, giovanissima operaia; in un grosso impianto Eni la morte di 5
addetti alle operazioni di riempimento delle autocisterne. Ad un’analisi superficiale,
due cose apparentemente distanti e diverse, ad un’analisi orientata a cogliere le radici
profonde, due casi assolutamente simili: la macchina su cui operava Luana era sicura
e rispondente alle norme comunitarie, ma è stata modificata (o meglio manomessa,
a scapito delle norme di sicurezza) per accelerare i tempi di lavorazione, come pure
le procedure di sicurezza nell’impianto Eni pare siano state bypassate per rendere
più veloci ed economiche le operazioni (quindi, la prima condizione si è verificata,
nel senso che la volontà di profitto ha prevalso sulla sicurezza). Nel contempo, si è
realizzata la seconda condizione, ovvero l’illegalità, perché si è usata una macchina
non conforme alle norme di legge in un caso, procedure non sicure nell’altro. E infine
si è negato (ed è la terza condizione) il sacrosanto diritto di Luana e dei 5 lavoratori
attivi presso l’Eni di tornare, dopo il lavoro, a casa vivi.
Lo voglio ricordare a chi, come l’ex presidente di Confindustria, chiedeva al governo
di “attivare interventi che facciano in modo che gli incidenti non avvengano” (ma
è forse il governo che è responsabile di organizzare la sicurezza nelle imprese?) o
a chi, come l’attuale Presidente del Consiglio e alcuni ministri, teorizza come non
si debbano disturbare le aziende che producono (forse ritenendo che controllare ed
esigere che si rispettino le norme di sicurezza sia un disturbo).
Permettetemi di chiudere con una nota personale, un ricordo di due grandi
personaggi che si sono occupati a lungo di questi problemi e che hanno un posto
importante nella storia della Resistenza e dell’Anpi, che ho avuto l’onore di conoscere
di persona e con cui ho lavorato insieme: un medico, Rosario Sasà Bentivegna ed un
giurista, Carlo Smuraglia: a loro dedico queste mie brevi riflessioni.