How to solve our mental health crisis

Advert for a universal basic income (UBI) scheme in New York, May 2016. Such schemes could offer significant benefits for recipients’ mental health.
Generation Grundeinkommen via Wikimedia, CC BY-SA

Matthew Smith, Professor in Health History, University of Strathclyde

This article is republished from The Conversation under a Creative Commons license. Read the original article.


 

When BBC journalist Rory Carson sought online consultations for a potential mental health issue, three private clinics diagnosed him with attention deficit hyperactivity disorder (ADHD). They charged between £685 and £1,095 for these consultations, which lasted between 45 and 100 minutes, and all prescribed him medication.

ADHD is a highly controversial disorder which emerged in the US in the late 1950s during the cold war, and quickly became associated with stimulant drugs such as Ritalin. Now diagnosed throughout the world, ADHD is central to many debates about neurodiversity.

While Carson’s Panorama investigation into its treatment attracted plenty of criticism, the fact that this disorder could apparently be diagnosed quite casually online is concerning. When he subsequently had a more rigorous (but free) three-hour, in-person consultation with an NHS psychiatrist, he was told that he did not, in fact, have ADHD.


Across the world, we’re seeing unprecedented levels of mental illness at all ages, from children to the very old – with huge costs to families, communities and economies. In this series, we investigate what’s causing this crisis, and report on the latest research to improve people’s mental health at all stages of life.


Society’s increasing awareness of mental health issues and demand for mental health support has been driven, in part, by social media and easier access to information online. While this is no bad thing in many ways, the related increase in self-diagnosis (including among children and adolescents) is clearly open to abuse by some organisations offering costly diagnoses and treatments.

But there is another reason for this rapid growth in private mental healthcare. In England alone, the NHS spends around £2 billion per year on private hospital care for mental health patients – equating to 13.5% of its total mental health spend. Due to the reduction in NHS bed provision, nine out of ten privately-run mental health beds are now filled by NHS patients.

While the UK government says it is committed to spending more money on mental health, private investment companies are reportedly queuing up to “seize the opportunities offered up to them by the NHS crisis”. Private providers say they can do more to help avert a mental health emergency exacerbated by the COVID pandemic, yet a dozen of the 80-odd privately-run mental health hospitals in England were rated as “inadequate” in the Care Quality Commission’s latest report, which has warned of possible closures.

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La salute e la pace

Fonte Saluteinternazionale.info che ringraziamo 

di Pirous Fateh-Moghadam

Di fronte alle guerre combattute con moderni armamenti ed eserciti, la scelta pacifista risulta obbligata anche per chi non parte da una posizione di rifiuto categorico della violenza. L’unica opzione a disposizione, soprattutto per chi svolge una professione sanitaria è quindi quella dell’opposizione alle guerre, della prevenzione dei conflitti e della promozione della pace. La guerra è una catastrofe di sanità pubblica che va prevenuta o fermata il prima possibile nel caso sia già in atto.

L’Associazione italiana di epidemiologia (Aie) insieme alla rivista Epidemiologia&Prevenzione (E&P) da luglio di quest’anno ha lanciato una iniziativa rivolta all’intero mondo scientifico di area biomedica a favore della stesura di una dichiarazione congiunta che difenda le ragioni della promozione della pace come compito professionale di chi è impegnato nella tutela e nella promozione della salute, nelle università e centri di ricerca, negli ospedali, sul territorio e nei diversi dipartimenti delle ASL. Questa iniziativa si inserisce in un filone di attività promosse da un gruppo di lavoro all’interno dell’Aie, attivo sin dal 2004, che si dedica all’analisi dei conflitti armati e del militarismo come determinante della salute.

Come ho cercato di documentare nel mio libro “Guerra o salute: dalle evidenze scientifiche alla promozione della pace”, appena pubblicato da Il Pensiero scientifico editore[1], dall’analisi delle guerre emergono alcune caratteristiche che si ripetono con deprimente monotonia in tutti conflitti armati che impiegano tecnologie ed eserciti moderni. Le caratteristiche degli armamenti e tecnologie oggigiorno disponibili fanno sì che ogni guerra sia caratterizzata, per sua intrinseca natura, dalla mancanza di limiti spaziali, temporali e giuridici; dalla impossibilità di discriminare tra obiettivi militari e civili (compresi ospedali e strutture sanitarie); dalla costante violazione delle leggi umanitarie internazionali; da effetti indiretti e a lungo periodo, dovuti anche agli enormi danni ambientali, che provocano sofferenze che tipicamente si estendono molto oltre la durata dei combattimenti; e dalla sempre possibile evoluzione in guerra nucleare, anche per errore.

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Brandizzo: qualche riflessione in ordine sparso

 

Fonte: Disuguaglianze di salute

A cura di Federico Magrì che ringraziamo 

Un’oncia di prevenzione vale più di una libbra di cura.

Così recita un detto anglosassone, e a ragione. Il concetto era ben chiaro anche nella mente degli illuminati legislatori che, ormai quarantacinque anni fa, hanno redatto il testo della Legge che ha istituito il nostro Sistema Sanitario Nazionale, la Legge 833/78. Il principio viene declinato in modo assolutamente chiaro nel testo di legge e credo possa essere utile (e doveroso) richiamarlo: (art. 2)

Il conseguimento delle finalità di cui al precedente articolo è assicurato mediante:

    1) la formazione di una moderna coscienza sanitaria sulla base di un’adeguata educazione sanitaria del cittadino e delle comunità;

    2) la prevenzione delle malattie e degli infortuni in ogni ambito di vita e di lavoro;

    3) la diagnosi e la cura degli eventi morbosi quali che ne siano le cause, la fenomenologia e la durata;

    4) la riabilitazione degli stati di invalidità e di inabilità somatica e psichica; (…omissis…)

La successione dei punti lascia trasparire tutta l’importanza attribuita alla formazione di una moderna coscienza sanitaria ed alla prevenzione delle malattie e degli infortuni in ogni ambito di vita e di lavoro, che vengono prima della diagnosi e cura.

Purtroppo l’attualità, oggi dominata dal tragico incidente di Brandizzo e dalle sue cinque vittime, ci mostra chiaramente come i principi che hanno ispirato gli estensori della norma siano stati dimenticati. Unanime è il coro di quanti (amministratori, sindacati, politici fino alle più alte cariche dello Stato) invocano maggiori controlli e sanzioni più severe. Nessuno chiede maggiore coscienza e maggiore prevenzione, che invece sarebbe ciò che serve…

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ILO. L’intelligenza artificiale generativa dovrebbe integrare anziché distruggere i posti di lavoro

Un rapporto dell’ILO valuta l’impatto dell’intelligenza artificiale generativa (in grado di generare testi, immagini o altri media) sulla quantità e qualità dei posti di lavoro.
GINEVRA (Notizie dall’ILO) – Un nuovo studio dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) rileva che l’intelligenza artificiale generativa (AI) ha maggiori probabilità di integrare piuttosto che distruggere posti di lavoro automatizzando determinati compiti piuttosto che sostituirne interamente un ruolo.

Lo studio, Generative AI and Jobs: un’analisi globale dei potenziali effetti sulla quantità e qualità del lavoro (Nota del redattore: Generativa AI e occupazione: un’analisi globale dei potenziali effetti sulla quantità e qualità dell’occupazione), suggerisce che la maggior parte dei posti di lavoro e delle industrie sono solo parzialmente esposti all’automazione e sono più suscettibili a essere integrati o sostituiti dall’ultima ondata di automazione. IA generativa, come chatGPT. Pertanto, è probabile che l’impatto maggiore di questa tecnologia non sia la distruzione di posti di lavoro, ma piuttosto potenziali cambiamenti nella qualità del lavoro, comprese l’intensità del lavoro e l’autonomia.